mercoledì 25 dicembre 2013

Quale Futuro ?

Londra choc: "Fra 10 anni dell'Italia non resterà nulla"


La London School of Economics traccia un'analisi a tinte fosche della situazione italiana


“Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà". Così Roberto Orsi, italiano emigrato a Londra per lavorare presso la London School of Economics, prevede il prossimo futuro del Belpaese.

IVA AL 22% SCELTA MIOPE - E le ultime mosse del governo, innalzamento dell'Iva al 22% su tutte, non sembrano la via migliore per invertire la pericolosissima tendenza: "Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile - prosegue Orsi nella sua disamina -, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo. Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione".

UN SETTORE DISTRUTTO - Il termometro più indicativo della crisi italiana, secondo orsi, è lo smantellamento del sistema manufatturiero, vera peculiarità del made in Italy a tutti i livelli: "Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce. Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori. La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza, l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa".

RESPONSABILITA' POLITICHE - Quando si tratta di individuare le responsabilità, Orsi non ha dubbi nel puntare il dito contro la politica: "L’Italia è entrata in un periodo di anomalia costituzionale. Perché i politici di partito hanno portato il Paese ad un quasi collasso nel 2011, un evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Il Paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica , che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale. L’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese. Saranno amaramente delusi. L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia".

domenica 15 dicembre 2013

FATTI E MISFATTI

Quando la verità sconfigge la menzogna



lL’ultima doccia era stata gelata, agghiacciante, e l’abbiamo fatta all’inizio di dicembre quando un autorevole quotidiano di Mumbai, The Hindustan Times, attingendo a fonti della NIA e del MHA (Ministero degli Interni indiano) solitamente attendibili e molto bene informate, fece trapelare alcune delle principali conclusioni cui erano giunti gli inquirenti della NIA a chiusura dell’istruttoria condotta a carico dei nostri fucilieri. Quelle indiscrezioni finirono poi in un articoletto pubblicato lo scorso 4 dicembre sul quotidiano di quella sterminata città con 20 milioni di abitanti che prima si chiamava Bombay, con un titolo inequivocabile : “NIA will ask death for the Italian marines”, cioè la Nia chiederà la pena di morte per i Marò italiani. In quell’articoletto che abbiamo letto terrorizati più e più volte si riportavano le esternazioni di un anonimo funzionario della NIA dalle quali si apprendeva che l’istruttoria era chiusa e che sulla base di una cinquantina di testimonianze, delle indagini di polizia e delle perizie, si poteva concludere che i Marò avevano sparato deliberatamente e con premeditazione, che le prove a loro carico erano schiaccianti, per cui la NIA avrebbe chiesto al tribunale di rinviarli a giudizio con l’imputazione di omicidio volontario con applicazione della pena di morte.
Ma qui arriva la notizia clamorosa che non è una notizia, ma un fatto nuovo, scoperto per caso :da un paio di giorni quell’articoletto sul sito dell’Hindustan Times è scomparso, cancellato. Al suo posto, sotto lo stesso titolo, adesso c’è un laconico comunicato che dice testualmente : “La NIA, che indaga sul conto dei due marines italiani per l’uccisione di due pescatori del Kerala, ha raccomandato che essi siano imputati nell’ambito di una legge che preveda la pena capitale”. Con questo scarno comunicato sono stati di molto ammorbiditi i toni furenti con cui erano state tranciate delle accuse pesantissime ed infamanti, trasformando le richieste in raccomandazioni, cioè in pareri non vincolanti, e facendo in particolare scomparire il riferimento diretto al SUA Act 2002 che prevede esclusivamente la pena capitale, nonchè ogni dettaglio in merito alle convinzioni degli investigatori espresse nell’atto istruttorio. Cosa può essere successo?
Scomparso il più truce degli articoli, ne sono rimasti in circolazione molti altri per niente teneri con i nostri Marò, pubblicati sulla stampa indiana tra il 27 ed il 28 di novembre, dal contenuto assai simile, in linea con il contenuto dell’articolo cancellato, ma con toni più soft e meno aggressivi di quello. Tutti però confermavano le intenzioni della NIA con titoli monocordi nella loro esplicitazione, tipo : “NIA seeks death penalty for Italian marines who killed two Indian fishermen” (La NIA vuole la pena di morte per i marines italiani che uccisero due pescatori indiani), notizia che poi è esplosa il 29 novembre su tutti i più importanti quotidiani indiani, come il Times of India ed il Deccan Chronicle. Però già allora apparve una voce fuori dal coro, il quotidiano The Hindu edito nel Tamil Nadu, che segnalava per la prima volta contrasti tra il NIA, che insisteva per chiedere la pena di morte, ed il Ministero degli Interni che aveva avuto lunghe discussioni con quello degli Esteri, che alla fine parrebbe averlo convinto, il condizionale è d’obbligo, sull’inopportunità di proporre la pena capitale per i Marò. Ma perchè è inopportuno? In giustizia gli unici aggettivi usati dovrebbero essere innocente o colpevole per un imputato, giusta od ingiusta, equa od iniqua per una sentenza. E chi decide alla fine il capo di imputazione, il gip o il Ministero degli Interni? Come è possibile un dilemma del genere?
Per quello che stiamo vedendo in queste ultimissime ore c’è da pensare che il vento per i nostri valorosi ed orgogliosi militari stia cambiando e che sia partita la corsa a prendere le distanze dalla NIA, la loro più spietata accusatrice. Sinora, l’agenzia di investigazione federale aveva giocato con le parole, aveva detto e non detto, aveva fatto intendere chissà quali retroscena e l’arrivo di imminenti, clamorosi sviluppi, lasciando intendere di essere in possesso di elementi probatori inoppugnabili ed inequivocabili che davano loro la piena certezza della colpevolezza dei Marò. Sinora si era trattato di chiacchiere e di illazioni raccontate con una tale sicurezza da fare concedere alla NIA credibilità, stima e considerazione da parte del governo, delle istituzioni e la neutralità dei più autorevoli organi di stampa, che in India non è poco. Se c’era stata qualche divergenza con gli Esteri e la Giustizia, il MHA aveva sempre difeso a spada tratta la propria agenzia antiterrorismo. Del resto in quale Paese un ministro degli interni non ritiene di dover concedere piena fiducia alle proprie forze dell’ordine, alla propria polizia, ai propri inquirenti? Però ora la NIA non ha potuto continuare a nascondersi dietro le parole, ha devuto dimostrare fatti e di avere argomenti concreti ora che ha finalmente concluso le sue indagini ed ha prodotto il Rapporto finale che costituisce l’input per la formulazione del capo d’accusa e la costruzione dell’impianto accusatorio nel processo. Rapporto che ha già preso a circolare e che è arrivato a tutti i dicasteri, sui tavoli del governo e, come sembra ovvio, pure all’attenzione della Corte Suprema dell’India.
Reazioni ufficiali ancora non ce ne sono, ma si sa che la lettura di quel Rapporto sta creando sconcerto e delusione negli indiani, il cui atteggiamento è quello di chi si chiede : “Ma è tutto qui?”. Si ha netta l’impressione che la ricostruzione dei fatti appaia, anche al meno attento dei lettori, lacunosa, contradditoria, illogica ed inconsistente. Da chi per mesi ha lanciato accuse infamanti e di inaudita gravità ci si aspettava che avesse argomenti più solidi e consistenti di quelli portati a sostegno di tesi che fanno invece acqua da tutte le parti. Uno dei punti che aveva suscitato le maggiori aspettative era quello di conoscere le motivazioni che hanno convinto la NIA, unica voce fuori dal coro, a ritenere di potere accusare i Marò di omicidio volontario. Per mesi tutti in India, persino la polizia del Kerala e la Corte Suprema avevano definito l’uccisione dei due pescatori accidentale, solo un tragico errore, perchè derivante dalla convinzione di essere alle prese con pericolosi e spietati pirati. Nel fascicolo che la Corte di New Delhi ha consegnato alla NIA c’era scritto chiaro di condurre indagini su “due marines italiani responsabili di avere ucciso due pescatori scambiati per pirati”. Le motivazioni della NIA a tale proposito sono risibili. Premettono di considerare i Marò alla stregua di terroristi, di qui la richiesta di pena capitale, perchè hanno ucciso in mare creando una situazione di enorme pericolosità per la navigazione. Peccato, facciamo notare noi, che siano stati proprio i Marò ad avvertire il SAR di Mumbai, come testimonia lo scambio di fax con la Lexie, del pericolo costituito da barchini di pirati in libera uscita nello specchio di mare antistante la costa del Kerala, cosa della quale in quel lontano 15 febbraio del 2012 nessuno era a conoscenza. Ma andiamo avanti.
La motivazione per sostenere la volontarietà risiede nel fatto che i Marò non avvertirono i pescatori prima di sparare loro addosso. La prova di questo fatto, secondo la NIA, l’avrebbero fornita gli stessi Marò, ammettendo di avere azionato le segnalazioni radio e quelle luminose, ma NON quelle sonore. Questa spiegazione non è sbagliata, ma stupida. E’ vero che i Marò hanno ammesso di non aver azionato le sirene, ma solo perchè all’incombenza aveva provveduto il comandante della nave Umberto Vitelli, che si era spaventato per la piega che stavano prendendo gli eventi, con il barchino con uomini armati che si avvicinava, e aveva dato sfogo a tutte le sirene di cui disponeva la nave sperando di dissuadere i pirati dall’attuare quello che anche lui riteneva un attacco imminente. La prova della premeditazione, secondo la NIA sarebbe costituita dal fatto che furono solo due Marò su sei a sparare, segno evidente che non si trattava di una operazione militare, ma di una specie di ignobile e disumano tiro al bersaglio. Sarebbe facile replicare che questa versione dei fatti è smentita da tutti, persino dai marinai indiani imbarcati sulla Lexie, che escludono che comunque i Marò abbiano sparato addosso a qualcuno, ma solo pochi colpi di avvertimento in acqua. Del resto, non ci vuole una grande intelligenza per comprendere che il fatto di avere sparato in due è la prova evidente della veridicità di quanto affermato dai nostri fucilieri:per sparare una ventina di colpi d’avvertimento in acqua non occorre che siano in sei ad imbracciare i fucili mitragliatori. Due Marò bastano ed avanzano. E persino se si fosse trattato di una gara di tiro a bersaglio avrebbero sparato tutti, non solo in due. Quindi, non era neanche un tiro a bersaglio, quello.
Per quanto ci risulta, sono molti i punti che suscitano grandi perplessità nel governo e nelle autorità indiane nel Rapporto della NIA. Uno dei più critici è questo di cui abbiamo appena parlato, cioè quello della volontarietà dell’omicidio, una accusa peraltro ancora tutta da dimostrare quella che ad uccidere furono i nostri Marò e non altri, e che non convince nessuno fuori della NIA, tanto che persino il MHA adesso comincia a definire esagerata la richiesta della pena di morte. Poi c’è un elemento che può risultare decisivo per scagionare i Marò. Nel rapporto inviato alla Marina Militare italiana sulle perizie balistiche delle armi sequestrate ai Marò sulla Lexie sotto sequestro nel porto di Kochi, la polizia del Kerala segnala che a sparare non furono le armi di Latorre e Girone, ma quelle di altri due Marò. Allora anche in India qualcuno comincia a chiedersi come mai si accusino, si trattengano in arresto e si intenda processare Latorre e Girone nel momento in cui gli stessi inquirenti ammettono che non furono loro a sparare. E’ quello che vorremmo sapere tutti, i Marò per primi, ma anche noi, che aspettiamo da troppo tempo questa risposta. Poi va segnalato che le ricostruzioni obbiettive dei fatti, basate sui documenti ufficiali e riscontri oggettivi, attività nelle quali Qelsi si impegna da 22 mesi, ma che hanno visto l’impegno di molti importanti personaggi come il perito balistico di fama internazionale Luigi Di Stefano ed il vicedirettore di TGcom 24 Tony Capuozzo, hanno cominciato a circolare anche in India, e gli effetti si cominciano a vedere anche per merito di persone che dalle pagine di facebook si sono battute, e lo fannho tuttora per far emergere la verità.
Le dimostrate incongruenze sull’orario dell’uccisione dei pescatori che differisce di 5 ore da quello dello sparo di colpi dal bordo della Lexie, la assoluta inattendibilità delle perizie balistiche sulle armi e la loro conseguente inutilizzabilità, le accuse rivolte a Latorre e Girone nonostante il dichiarato convincimento che a sparare siano stati altri, non loro, l’impossibilità di effetture perizie e sopralluoghi sulla scena del delitto, cioè il peschereccio St Antony che è stato rottamato senza poter effettuare rilievi sui colpi cui fu fatto oggetto, tanto per citare alcune evidenti debolezze del castello accusatorio, stanno creando enorme imbarazzo nel governo indiano, che si era esposto arrivando a sequestrare due militari in missione, dell’esercito di un Paese amico ed alleato nella battaglia contro la pirateria sollecitata dall’ONU, militari di un Paese che è uno dei suoi principali partners intrnazionali, convinto dalla polizia del Kerala prima e dalla NIA poi di poter dimostrare la fondatezza delle accuse, per arrivare a condannare per poi magari dar vita ad un atto di clemenza. Voleva assumere atteggiamenti da grande potenza, che non guarda in faccia nessuno dall’alto della sua forza e della sua autorevolezza, ma che rischia di fare una figuraccia da repubblichetta delle banane, ora che e lo scenario reale si sta dimostrando ben diverso da quello inizialmente prefigurato. Un tormento si sta impadronendo di molti personaggi della politica indiana, che questi elementi portati in un Tribunale della Libertà bastino ed avanzino a far scagionare i nostri Marò mandando a gambe all’aria il processo-farsa che la polizia del Kerala e la NIA hanno cercato di imbastire contrastati da un bombardamento continuo, da parte di alcune persone  dei gruppi pro marò, che hanno subissato di valutazioni e analisi dell'accaduto a tutte le agenzie di stampa Indiane. E allora qualcuno ha già ritenuto conveniente defilarsi o correre ai ripari, mentre qualcun altro ha fatto molto di più.
E’ infatti appena stato rivelato da fonte insospettabile, celata all’interno proprio di quel Ministero degli Esteri che sinora era stato l’egida sotto la quale trovava riparo la NIA, che l’agenzia ha fatto una gravissima omissione nel rapporto, un vero falso in atto pubblico ed un abuso di potere, omettendo di menzionare una precisa disposizione della Corte Suprema a favore dei Marò, cioè la verifica da parte del Tribunale della Libertà della sussistenza di chiari elementi probatori a loro carico e che tutte le garanzie di legge nei loro confronti fossero state rispettate. Con questa uscita delatoria si è voluto smascherare l’infame imbroglio diabolicamente messo in piedi dalla NIA, che si è ritrovata spiazzata e senza armi di difesa del proprio operato, che può essere definito negligente, nella migliore delle ipotesi. Ora noi ancora non sappiamo se questa rivelazione-bomba del tentativo della NIA di indirizzare il processo su binari precostituiti sia frutto di faide e di regolamenti di conti all’interno della compagine governativa nella quale le fazioni stanno già affilando le armi in vista delle elezioni, piuttosto che di un intervento garantista a tutela del rispetto della giustizia e dei Marò, facendo trionfare la verità. Certo che le parole usate dall’anonimo informatore sono sassi lanciati con violenza contro l’agenzia : “Tutto nell’istruttoria della NIA è funzionale alla conduzione del processo penale. L’indicazione relativa al ricorso al Tribunale della Libertà è stato volutamente ignorata dalla NIA che non vi fa alcun accenno. Adesso che si vedono scoperti loro si difendono affermando che lo hanno fatto per accelerare l’iter del procedimento giudiziario. Però nel caso dei Marò italiani, le disposizioni della Corte Suprema erano chiare ed investivano sia il tribunale giudiziario che quello della libertà”. Più chiari così. Investita da spifferi di vento che minacciano di tramutarsi in bufera, anche se ancora tenuta all’interno dei palazzi del potere, la NIA ha tentato di discolparsi un po’ infantilmente come un bambino sorpreso alle prese con la marmellata, cercando di trovare qualche connivente sostegno. In particolare, ma solo adesso che si sono visti scoperti, assicurano che si atterranno a tutte le disposioni della Corte Suprema, anche se paventano che così facendo “la difesa degli italiani potrà trarne dei vantaggi in fase dibattimentale”. Quali vantaggi lo diciamo noi: che nel Tribunale della Libertà si dia finalmente attenzione a tutte le prove della innocenza dei Marò che la NIA ha volutamente ignorato, esame obbiettivo che potrebbe condurre alla decisione del loro rilascio in conseguenza del proscioglimento per essere assolutamente estranei ai fatti loro contestati, facendo finire la NIA, non i Marò, sul banco degli imputati. Staremo a vedere come gira il vento.

mercoledì 27 novembre 2013

DECADENZA PROGRAMMATA



Vedendo quello che succede in Italia dall'esterno viene da chiedersi cosa spinge gli Italiani ad autodistruggersi.
Forse, come i disperati che sbarcano sulle nostre coste, cercano quello che da un po di tempo si è perduto, lavoro sicuro, benessere, sicurezza per la famiglia, tranquillità, libertà e democrazia.
La maggior parte di essi non si rende ancora conto di essere la causa principale di tutti gli ultimi avvenimenti, sempre pronti ad addossare ad altri le colpe, a scaricare sulla politica il mal contento, a prendersela con i politici di turno per come vanno le cose e con le istituzioni non pensando che, quando si disertano le urne si fa il gioco di chi non si vuole votare, oppure dando il voto per protesta si rende più forte una minoranza e ancora, votando piccoli partiti nati dalla scissione di quelli grandi si costringe a creare alleanze che nulla hanno in comune se non quello di occupare poltrone senza fare l'interesse del popolo.
Negli anni '90 è cominciata, con l'inchiesta di "mani pulite", la disaffezione degli Italiani dalla politica favorendo la minoranza di sinistra che, approfittando  del malcontento scatenatosi nell'opinione pubblica, si è fatta paladino della giustizia inserendo propri simpatizzanti tra le più alte cariche giuridiche e istituzionali , Il popolo, da quel momento, ha perso  la sua sovranità demandando ad altri i suoi diritti e le sue prerogative.
Abbiamo perso per strada la Dignità, l'Onore, la Sovranità, il senso del dovere, l'altruismo, il potere decisionale, la Giustizia e la credibilità.
Gli ultimi avvenimenti riassumono queste condizioni; dal caso dei nostri due fucilieri di marina Latorre e Girone che hanno posto il nostro paese all'ultimo posto della diplomazia mondiale a quello del contractor Quiattrocchi, il primo dimostra l'inettitudine e l'incapacità delle istituzioni e il secondo l'inefficienza , il pressapochismo e l'incapacità di giudizio di certa magistratura, aggiungiamo una disoccupazione che ha raggiunto i livelli del 1977, i pesanti tagli alla sicurezza che mettono in ginocchi Polizia e Carabinieri, quelli alla Difesa che impediscono l'ammodernamento delle nostre FF.AA., la Sanità che rischia il collasso, Tasse e Imposte che fanno fallire migliaia di piccole e medie imprese con il conseguente suicidio di molti titolari, Cittadini ed Esercenti che, per difendere la loro proprietà, rischiano il carcere, tutori delle forze dell'ordine che vengono incriminati per fare il loro dovere e facinorosi estremisti che vengono elevati ad eroi.
In questo modo si è preclusa qualsiasi strada per rimettere a posto le cose in modo democratico infatti, a nulla valgono referendum e petizioni, a nulla valgono pacifiche manifestazioni di piazza, a nulla valgono denunce ed esposti ad una magistratura chiaramente e palesemente di sinistra volta a favorirla in qualsiasi modo. Insomma si sta delineando una strategia ben precisa che è quella di portare il paese in una condizione di sudditanza verso l'europa.
Da tutto questo la domanda: Perché gli Italiani sopportano tutto questo?  Sono ciechi ? Pensano e sperano in un soccorso Divino? O più semplicemente son diventati tutti più pavidi di un gregge che, tremante, aspetta il branco dei lupi che sbranerà la maggior parte di loro.
Non abbiamo ancora capito che non possiamo combattere i potenti dell'economia in maniera "democratica" e che rimanendo a guardare si rafforza il loro operato.
Siamo arrivati al punto di non ritorno a chi daremo la colpa della catastrofe?
Possiamo gridarlo forte....A NOI STESSI !

A. Adamo


domenica 10 novembre 2013

Come per i nostri Max e Salvo

La fotografia di un fallimento chiamato ITALIA


C'è una donna a seno nudo abbandonata sul marciapiede vicino alla stazione centrale. Forse dorme, ma la foto non dà certezze. La certezza è il degrado che le sta attorno. Pattumiera, un bicchiere di carta buttato lì, altre schifezze. La gente cammina, parcheggia fa le sue cose e passa oltre. Come se nulla fosse continua nella sua quotidianità indifferente. Non so se questa sia la foto che rispecchia la condizione di questo paese  però è un'immagine come tante altre che giungono da tutte le città.


Come quella raccontata ieri sulle pagine di cronaca di Repubblica. La storia, più o meno, è la stessa. C'è una donna accasciata sul cofano di un'auto vicino a piazza Sant'Ambrogio. Sta male. E' abbandonata a se stessa, inchiodata dai dolori al petto che una malattia del sistema immunitario le provoca. Non morirà, ma lo sa solo lei che è anche un medico. Chi le passa accanto però non si ferma per aiutarla. Né le mamme che escono dalla scuola con i bimbi, né gli studenti , né i passanti. Nessuno. Nessuno che abbia un sussulto. Nessuno che chiami un'ambulanza.
Questi due fatti, ma ce ne sono tantissimi altri, sono l'esempio di un Paese immobile , dove la gente finge di non accorgersi delle cose che accadono. Dove quasi tutti decidono di non fare, soccorrere, aiutare, interessarsi per evitare seccature, guai, magari un pugno o una coltellata, paura dello sconosciuto, timore che dovrà perdere tempo o giustificare il suo intervento. Certo, ci sono una sacco di persone che si rimboccano le maniche da volontari, che danno una mano e meno male che ci sono. Ma qui stiamo parlando del popolo che cammina per strada, viaggia in metrò, chatta sui telefonini e passa oltre. 
Grande solidarietà sul Web tutti bravissimi a esprimere sgomento e indignazione, molti scetticismo e alcuni addirittura di critica accusando di fini strumentali (e sono quelli che voltano per primi la testa per non vedere). 
Si discute tanto di diritti civili, si fanno battaglie per i registri più vari, per i deboli, gli ultimi, si parla sempre di solidarietà ma poi quando bisogna agire non si trova più nessuno. Si defilano tutti. Sembra quasi un paese a due facce che tanto fa e che molto se ne frega. Però l'Italia è diventata anche un paese che ha paura e non vuole guai. Un paese che si fa i fatti suoi perché molto spesso chi si impiccia finisce male, perché valgono più la prepotenza del senso civico, le maniere forti sulla buona educazione. E così sceglie di restare immobile , permette di essere invasa da torme di profughi, lascia che i propri valori vengano calpestati, affida le proprie sorti a personaggi incapaci e inconcludenti, dileggia e osteggia le nostre FF.AA., e non ultimo, col caso dei nostri Fucilieri del Battaglione S. Marco, permette ad un paese, considerato amico, di sequestrare due Militari in missione comandata.  I politici poi sono il Flash della macchina che scatta questa Fotografia ; Proclami, dichiarazioni, frenetiche consultazioni, verità nascoste, commenti e smentite, scambi di accuse, interrogazioni alle quali se rispondeva pinocchio il naso sarebbe uscito dall'aula insomma si può usare solo un termine:  
FALLIMENTO
Fallimento di un popolo che ha perso i valori fondamentali trasmessoci dai nostri padri. di istituzioni incapaci di gestire situazioni di emergenza. Fallimento di un popolo che non è in grado di saper distinguere chi può fare il bene del paese e che cosa serve al paese.
L'esempio iniziale rende un'immagine reale del menefreghismo e di tanti indignati con chi ci amministra, e che noi abbiamo scelto. In realtà una riflessione toccherebbe a tutti. Le storie di quelle due donne abbandonate sono due immagini di come è diventata l'Italia. E far finta di non vederle è solo ipocrisia ed egoismo.

giovedì 31 ottobre 2013

I GIUDICI DI BELLINZONA (CH)

Chi diceva Finmeccanica non c'entra
SENTENZA

Bundesstrafgericht
Tribunal pénal fédéral
Tribunale penale federale
Tribunal penal federal
Numero dell'incarto: RR.2013.229
Sentenza del 16 ottobre 2013
Corte dei reclami penali
Composizione
Giudici penali federali Stephan Blättler, presidente,
Giorgio Bomio e Roy Garré ,
Cancelliere Giampiero Vacalli
Parti
A. , rappresentato dall'avv. Luca Marcellini,
Ricorrente
contro
UFFICIO FEDERALE DI GIUSTIZIA , SETTORE ESTRADIZIONI,
Controparte
Oggetto
Assistenza giudiziaria internazionale in materia penale all'Italia
Decisione di estradizione (art. 55 AIMP) e
delega all'estero (art. 88 AIMP)

Fatti:

A. L'11 febbraio 2013 il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Busto Arsizio ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere e arresti domiciliari (n. 3856/12 R.G.N.R. - n. 3785/12 R.G GIP) nei confronti di A. ed altri per il reato di corruzione internazionale in concorso. In sostanza, gli indagati avrebbero posto in essere, verso la fine del 2012, manovre corruttive nell'ambito di una fornitura di elicotteri all'India da parte della società C., gruppo controllato da B., società finanziata dallo Stato italiano e quotata alla borsa valori di Milano.
B. Con nota verbale del 5 aprile seguente, l'Ambasciata d'Italia a Berna ha presentato all'Ufficio federale di giustizia (in seguito: UFG) la richiesta formale di estradizione di A., cittadino americano e italiano.
C. Venuto a conoscenza che nei confronti dell'estradando era pendente un procedimento penale in Svizzera aperto dal Ministero pubblico della Confederazione (in seguito: MPC), l'UFG, in data 18 aprile 2013, ha trasmesso a quest'ultimo la domanda di estradizione, chiedendogli di specificare se i fatti indagati dalle autorità italiane e svizzere fossero i medesimi. In caso affermativo, esso avrebbe dovuto motivare un'eventuale estradizione all'Italia nonché specificare l'eventuale sua intenzione di chiedere all'autorità rogante l'assunzione del procedimento penale svizzero. Se i fatti indagati non fossero stati gli stessi o se l'autorità inquirente federale avesse deciso di rinunciare alla sua procedura a favore dell'estradizione, il MPC avrebbe dovuto provvedere all'audizione dell'estradando.
D. Il 26 aprile 2013 il MPC ha comunicato all'UFG che i fatti perseguiti in Italia ed in Svizzera erano sostanzialmente i medesimi, che a suo avviso A. andava estradato, chiedendo nel contempo all'autorità rogante di assumere il perseguimento per quanto riguarda i reati commessi in Svizzera, e che in ogni caso il procedimento svizzero era stato nel frattempo sospeso.
E. Interrogato il 30 aprile seguente, A. si è opposto alla sua estradizione in via semplificata.
F. Il 13 maggio 2013 l'estradando ha preso posizione sia sullo scritto del MPC del 26 aprile 2013 che sulla domanda di estradizione italiana, rifiutando la sua estradizione.
G. Con nota verbale del 17 giugno 2013, l'Ambasciata d'Italia a Berna ha comunicato alle autorità elvetiche che, in caso d'accoglimento della domanda d'estradizione, sarebbero state assicurate condizioni detentive rispettose dell'art. 3 CEDU, aggiungendo che l'estradando non avrebbe dovuto necessariamente essere ristretto presso la Casa Circondariale di Busto Arsizio, essendovi la possibilità di essere incarcerato in un altro istituto penitenziario più vicino al confine svizzero, anche al fine di agevolare eventuali visite di familiari.
H. Il 12 luglio 2013 l'UFG ha concesso l'estradizione di A. all'Italia, chiedendo inoltre a quest'ultima di assumere il procedimento penale svizzero condotto dal MPC per i fatti commessi sul territorio svizzero, decisione contro la quale l'estradando, in data 14 agosto 2013, ha interposto ricorso davanti alla Corte dei reclami penali del Tribunale penale federale, chiedendone l'annullamento.
I. Con osservazioni del 5 settembre 2013 l'UFG propone di respingere il ricorso. Nella sua replica del 20 settembre seguente, trasmessa per conoscenza all'UFG, il ricorrente ribadisce le conclusioni presentate in sede di ricorso.
Diritto:

1. In virtù degli art. 55 cpv. 3 e 25 cpv. 1 della legge federale sull'assistenza giudiziaria internazionale in materia penale (AIMP; RS 351.1) e dell'art. 37 cpv. 2 lett. a n. 1 della legge federale sull'organizzazione delle autorità penali della Confederazione (LOAP; RS 173.71), la Corte dei reclami penali è competente per statuire sui ricorsi contro le decisioni d'estradizione. Interposto entro 30 giorni dalla notificazione scritta della decisione d'estradizione (art. 50 cpv. 1 PA, applicabile in virtù del rinvio previsto all'art. 39 cpv. 2 lett. bLOAP), il ricorso è tempestivo. In qualità di estradando il ricorrente è manifestamente legittimato a ricorrere (v. art. 21 cpv. 3 AIMP; DTF 122 II 373 consid. 1b e rinvii). Per quanto attiene alla decisione di delega del perseguimento penale, legittimata a ricorrere è unicamente la persona perseguita che ha dimora abituale in Svizzera (v. art. 25 cpv. 2 AIMP; sentenza del Tribunale federale 1A.117/2000 del 26 aprile 2000, consid. 1a; sentenza del Tribunale penale federale RR.2013.44 del 7 maggio 2013, consid. 1.3.2), ciò che è il caso nella fattispecie.
1.1 L'estradizione fra la Repubblica italiana e la Confederazione Svizzera è anzitutto retta dalla Convenzione europea d'estradizione del 13 dicembre 1957 (CEEstr; RS 0.353.1), entrata in vigore il 4 novembre 1963 per la Repubblica italiana e il 20 marzo 1967 per il nostro Paese, dal Secondo Protocollo addizionale alla CEEstr del 17 marzo 1978, entrato in vigore per la Repubblica italiana il 23 aprile 1985 e per la Svizzera il 9 giugno 1985, nonché, a partire dal 12 dicembre 2008 (Gazzetta ufficiale dell'Unione europea, L 327/15-17, del 5 dicembre 2008), dagli art. 59 e segg. dalla Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 (CAS). Di rilievo nella fattispecie è anche la Convenzione sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, conclusa a Parigi il 17 dicembre 1997, entrata in vigore per la Svizzera il 30 luglio 200 e per l'Italia il 13 febbraio 2001 (RS 0.311.21; in seguito: Convenzione sulla corruzione).
Le procedure di delega del perseguimento penale sono rette dalla Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, entrata in vigore il 12 giugno 1962 per l'Italia ed il 20 marzo 1967 per la Svizzera (CEAG; RS 0.351.1), dall'Accordo italo-svizzero del 10 settembre 1998 che completa e agevola l'applicazione della CEAG (RS0.351.945.41), entrato in vigore mediante scambio di note il 1° giugno 2003 (in seguito: l'Accordo italo-svizzero), nonché, a partire dal 12 dicembre 2008 (Gazzetta ufficiale dell'Unione europea, L 327/15-17, del 5 dicembre 2008), dagli art. 48 e segg. della Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 (CAS; testo non pubblicato nella RS ma ora consultabile nel fascicolo "Assistenza e estradizione" edito dalla Cancelleria federale, Berna 2012).
1.2 Alle questioni che il prevalente diritto internazionale contenuto in detti trattati non regola espressamente o implicitamente, come pure quando il diritto nazionale sia più favorevole all'estradizione rispetto a quello convenzionale (cosiddetto principio di favore), si applica l'AIMP, unitamente alla relativa ordinanza (OAIMP; RS 351.11; v. art. 1 cpv. 1 AIMP; DTF 137 IV 33 consid. 2.2.2; 136 IV 82 consid. 3.1; 130 II 337 consid. 1; 128 II 355 consid. 1; 124 II 180 consid. 1a; 123 II 134 consid. 1a; 122 II 140 consid. 2, 373 consid. 1a). È fatto salvo il rispetto dei diritti fondamentali ( DTF 135 IV 212 consid. 2.3; 123 II 595 consid. 7c; TPF 2008 24 consid. 1.1).
2. Il ricorrente sostiene innanzitutto che l e autorità giudiziarie italiane e svizzere avrebbero utilizzato il fatto di avere entrambe giurisdizione su un reato per creare le condizioni per adottare e mantenere misure cautelari privative della libertà. Da marzo ad ottobre 2012, pur essendo pendenti i procedimenti penali nei due Paesi, egli non sarebbe stato informato del procedimento svizzero, in modo da far progredire l'inchiesta italiana, ma operando nei suoi confronti sorveglianze di varia natura, onde poter intervenire con un arresto non appena ne fosse stata data l'occasione. A ottobre 2012 l'Italia avrebbe allentato la presa, rinunciando al seguito della rogatoria per consentire alla Svizzera di procedere all'arresto e di condurre indisturbata il procedimento. Siccome l'arresto non sarebbe stato confermato dal Giudice delle misure coercitive l'inchiesta svizzera avrebbe perso di slancio e si sarebbe riattivata quella italiana, chiedendo ancora collaborazione all'estradando. Ad inizio 2013, non essendovi più nulla da ottenere dall'estradando, l'Italia ne avrebbe chiesto l'arresto. A marzo 2013 quando l'estradando avrebbe voluto consegnarsi spontaneamente all'Italia per alleggerire le esigenze cautelari ed ottenere in tempi brevi la revoca del provvedimento, si sarebbe riattivata la giurisdizione svizzera citandolo ad un interrogatorio, non riconsegnandogli i documenti e quindi impedendogli di consegnarsi, contando su un arresto estradizionale. Visto però che questa ipotesi non si è concretizzata, la magistratura svizzera si sarebbe disinteressata dell'estradando e addirittura avrebbe auspicato un trasferimento in Italia suo e del procedimento a suo carico. In definitiva, il ricorrente ritiene che concedere la sua estradizione dopo l'iter procedurale da lui subito costituirebbe di fatto un avallo di un modo di procedere delle autorità inquirenti del tutto inammissibile.
Orbene, gli atti dell'incarto permettono senz'altro di evidenziare una non sempre lineare trattazione dei procedimenti sia nazionale che estero. Ciò deve tuttavia essere ricondotto verosimilmente alla complessità della fattispecie, la quale riguarda atti compiuti in più Paesi da soggetti con nazionalità e residenza diverse, ponendosi inevitabilmente problemi di coordinazione non sempre estranei a questa tipologia d'inchieste a carattere internazionale. Ad ogni modo, se l'estradando riteneva di essere stato vittima di atti contrari alle norme procedurali o materiali in vigore, avrebbe dovuto contestarli tempestivamente e puntualmente, ciò che non è stato il caso. Occorre ora constatare che le autorità italiane chiedono l'estradizione del ricorrente e che le autorità svizzere, sospendendo tra l'altro le proprie indagini, ritengono corretto che il predetto venga giudicato all'estero. Si tratta dunque di verificare in questa sede se le condizioni legali per tale estradizione siano date o meno.
3. L'estradando ritiene che la giurisdizione svizzera sarebbe data e sarebbe anche stata esercitata, essendoci sufficienti motivi affinché sia il MPC a proseguire il procedimento penale. I requisiti dell'art. 35 AIMP non sarebbero comunque adempiuti e l'estradizione non sarebbe ammissibile. Non si sarebbe del resto nemmeno in presenza di un caso speciale ai sensi dell'art. 36 AIMP, considerato come tutte le circostanze, in particolare le condizioni di un miglior reinserimento sociale, porterebbero a preferire la giurisdizione svizzera a quella italiana. La possibilità di rifiuto dell'estradizione di cui all'art. 37 cpv. 1 AIMP sarebbe già ampiamente concretizzata, nella misura in cui il perseguimento penale in Svizzera sarebbe già stato avviato e si troverebbe ad uno stadio avanzato. Nel caso concreto non entrerebbe neppure in linea di conto la possibilità di delegare all'estero il procedimento per cui l'autorità svizzera ha giurisdizione, considerato come non ne sarebbero manifestamente date le condizioni.
3.1 L'art. 7 n. 1 CEEstr permette allo Stato richiesto di rifiutare l'estradizione quando un reato, secondo la sua legislazione, è stato commesso in tutto o in parte sul suo territorio. Si tratta di una norma potestativa che permette allo Stato richiesto di rifiutare l'estradizione, senza tuttavia obbligarlo (v. sentenze del Tribunale penale federale RR.2012.230 del 14 novembre 2012, consid. 2.2; RR.2009.309 del 16 marzo 2010, consid. 9.2; ROBERT ZIMMERMANN, La coopération judiciaire internationale en matière pénale, Berna 2009, 3 a ediz., n. 567). Conformemente a tale disposizione, il diritto svizzero prevede che, di regola, l'estradizione non può intervenire quando il reato perseguito soggiace alla giurisdizione svizzera (art. 35 cpv. 1 lett. b AIMP). In questo caso, l'estradizione è concessa solo eccezionalmente, in presenza di circostanze particolari, segnatamente per garantire un migliore reinserimento sociale (art. 36 cpv. 1 AIMP). L'autorità di estradizione incaricata di decidere se la competenza delle autorità repressive svizzere può giustificare il rifiuto di estradare dispone in questo ambito di un ampio potere d'apprezzamento, di cui la giurisdizione di ricorso controlla unicamente l'abuso o l'eccesso (v. sentenze del Tribunale federale 1C_525/2013 del 19 giugno 2013, consid. 2.1.1; 1A.233/2004 dell'8 novembre 2004, consid. 3.1; sentenza RR.2012.230 consid. 2.2; sentenza del Tribunale penale federale RR.2007.72 del 29 maggio 2007, consid. 5.2; ZIMMERMANN, ibidem ) . Lo scopo dell'art. 36 cpv. 1 AIMP è quello di aprire un unico procedimento a carico dell'indagato per l'insieme dei fatti contestatigli, di regola laddove la maggior parte dell'attività delittuosa ha avuto luogo (DTF 124 II 586 consid. 3b/bb pag. 213; sentenza 1C_525/2013 consid. 2.1.1).
3.2 La giurisdizione svizzera è delimitata, indirettamente, attraverso il campo d'applicazione della legislazione penale federale, dagli art. 3 a 7 CP. Essa è segnatamente data per tutte le infrazioni commesse in Svizzera (art. 3 cpv. 1 CP). Il luogo del reato è sia quello dove l'autore ha agito che quello in cui il risultato si è prodotto (art. 7 cpv. 1 CP). È sufficiente che il reato sia stato almeno parzialmente perpetrato in Svizzera (DTF 111 IV 1; sentenza 1A.233/2004 consid. 3.2).
3.2.1 Nella fattispecie, le autorità italiane e svizzere chinatesi sulla vicenda hanno evidenziato più luoghi nei quali i fatti oggetto d'indagini sarebbero intervenuti. Secondo lo Stato rogante la corruzione internazionale di funzionari indiani, in relazione alla gara per la fornitura di 12 elicotteri destinati al trasporto di grosse personalità in quel Paese, sarebbe stato commesso in parte a Cascina Costa di Samarate (provincia di Varese), sede della società C., e consumato in India nel dicembre 2012. Le autorità inquirenti italiane affermano in particolare che "dagli interrogatori sostenuti dall'indagato A. e dalla documentazione sottoposta a sequestro, emerge, con chiarezza, che il reato di corruzione internazionale è stato, almeno in parte, commesso in Italia in quanto l'accordo illecito e la predisposizione dei mezzi per la consumazione del delitto è avvenuta presso la sede della società C. a Cascina Costa di Samarate. In particolare, a Cascina Costa hanno avuto luogo gli incontri fra A. ed i vertici di C. (D., E.), per discutere della gara e della possibilità di influenzare la commissione. Inoltre, proprio presso la sede di Cascina Costa sono stati conclusi gli accordi contrattuali (di consulenza e di ingegneria) tra la società C. ed A." (v. act. 6.4, scritto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio del 24 aprile 2012, pag. 2). Il riciclaggio di denaro finalizzato al pagamento delle presunte tangenti e provvigioni sarebbe stato commesso a Cascina Costa di Samarate, a Tunisi, alle Isole Mauritius e a Lugano in continuazione fino al gennaio 2013. Il MPC, dal canto suo, ha inizialmente aperto una procedura penale a carico dell'estradando per titolo di corruzione di ufficiali stranieri (art. 322 septies CP) e riciclaggio di denaro (art. 305 bis CP), ritenendo che i fatti corruttivi e di riciclaggio fossero stati commessi in parte anche su territorio svizzero, in particolare attraverso la società F., a Lugano, riconducibile anche al ricorrente (v. act. 1.5, pag. 5).
3.2.2 Ora, da quanto precede, e soprattutto alla luce dell'intero incarto (v. in particolare act. 6.2), emergono elementi che permettono sia all'Italia che alla Svizzera di fondare una propria competenza a perseguire e a giudicare i presunti atti di corruzione e riciclaggio a carico dell'estradando. Tuttavia, consce di questa situazione, le autorità inquirenti italiane e svizzere hanno giustamente fatto capo alla Convenzione sulla corruzione, il cui art. 4 n. 3 prevede che "quando più Parti hanno giurisdizione su un presunto reato di cui alla presente Convenzione, tali Parti, su richiesta di una di esse, si consultano per stabilire quale di esse sia meglio in grado di esercitare l'azione penale". In data 24 marzo 2013 il MPC ha quindi contattato le autorità italiane per consultarsi in tal senso (v. act. 6.4). Con fax del medesimo giorno la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Busto Arsizio ha comunicato alle autorità svizzere le ragioni che la inducevano a ritenersi meglio in grado di esercitare l'azione penale nei confronti dell'estradando per i reati di corruzione internazionale e riciclaggio di denaro (v. act. 6.4). Ricordata la nazionalità italiana dell'estradando, essa ha sottolineato come le indagini abbiano permesso di accertare che parte dei reati, ossia corruzione e riciclaggio, sarebbero stati commessi a Cascina Costa di Samarate, dove si trova la sede della società C. In data 25 aprile 2013 il MPC decideva di sospendere il procedimento penale a carico dell'estradando ed altri. Il giorno seguente esso informava l'UFG dei contatti avuti con l'autorità italiana e del fatto che a suo parere l'autorità italiana era più adatta per perseguire il ricorrente. Il MPC non si sarebbe quindi opposto alla consegna di quest'ultimo.
Sulla base degli atti dell'incarto (v. soprattutto act. 6.2, più precisamente l'ordinanza di custodia cautelare in carcere e arresti domiciliari a carico dell'estradando ed altri dell'11 febbraio 2013), questa Corte ritiene che il baricentro dei presunti atti corruttivi e di riciclaggio si trovi in maniera preponderante all'estero, essenzialmente in Italia. L'estradando è di nazionalità italiana ed il procedimento in Italia è ad uno stato più avanzato di quello svizzero. Accordatesi sulla base dell'art. 4 Convenzione sulla corruzione, le autorità elvetiche ed italiane hanno ritenuto quest'ultime più adatte per occuparsi di tutta la vicenda, soluzione condivisa da questa Corte. L'estradizione non può quindi essere rifiutata sulla base degli art. 35 cpv. 1 lett. b e 36 EIMP.
3.3 L'art. 37 cpv. 1 AIMP permette di negare l'estradizione se la Svizzera può assumere il perseguimento penale e ciò sembra opportuno riguardo al reinserimento sociale della persona perseguita. Tale disposizione non è tuttavia opponibile ad uno Stato che, come l'Italia, è parte alla CEEstr, il cui testo non contiene nessuna regola analoga all'art. 37 AIMP. L'art. 1CEEstr fissa l'obbligo di estradare, impedendo allo Stato richiesto di negare la propria collaborazione fondandosi su una norma o principio di diritto interno, anche se posteriore all'entrata in vigore della convenzione (DTF 129 II 100 consid. 3.1; 122 II 485 consid. 3; sentenza 1A.233/2004 consid. 3.3).
4. Un altro motivo per mantenere la giurisdizione svizzera è legato, a dire del ricorrente, agli interessi politici in gioco tra Italia e India. La vicenda che lo tocca implicherebbe un importante scontro di interessi politici ed economici tra i due Paesi. Coinvolta sarebbe la più importante azienda pubblica italiana e lo sarebbe nei suoi rapporti con le autorità politiche e militari di un Paese importante come l'India, con il quale l'Italia attraverserebbe attualmente una profonda crisi diplomatica per la vicenda dei due marinai militari italiani accusati di omicidio in India. Vi sarebbe il timore che l'andamento del processo sia condizionato dalle vicende politiche tra i due Paesi.
Orbene, quanto asserito dal ricorrente non è supportato da nessun elemento concreto in grado di confermare la sua tesi. Si tratta di ipotesi che, in assenza del benché minimo riscontro probatorio, non possono di certo issarsi a motivo sufficiente per negare l'estradizione. Anche tale censura va quindi respinta.
5. Il ricorrente sostiene che la sua estradizione all'Italia violerebbe il principio dell'unità della procedura, dato che la sua posizione processuale sarebbe inscindibile da quella del coaccusato G., cittadino svizzero, non estradabile.
5.1 Il principio dell'unità della procedura è previsto all'art. 29 CPP. Più reati sono perseguiti e giudicati congiuntamente se sono stati commessi da uno stesso imputato (cpv. 1 lett. a) oppure vi è correità o partecipazione (cpv.1 lett. b). Tale disposizione costituisce una regola d'ordine. L'applicazione rigorosa del principio in questione è sovente aleatoria e le persone perseguite non possono invocare tale principio per dedurne un vero diritto. La scoperta susseguente o tardiva di nuove infrazioni a carico di una persona già giudicata o che sta per esserlo, l'arresto di correi o di partecipanti a un'infrazione il cui autore principale o altri partecipanti sono già stati giudicati o stanno per esserlo giustificano perseguimenti e sentenze separate (v. BERNARD BERTOSSA, in Commentaire romand, Code de procédure pénale suisse, Basilea 2011, n. 4 ad art. 29 CPP).
5.2 In concreto, va rilevato che, da una parte, l'autorità svizzera ha sospeso il procedimento penale interno sia a carico del ricorrente che di G. Dall'altra, l'autorità rogante sta procedendo con la sua inchiesta anche nei confronti di G. - il quale risulta essere peraltro anche cittadino italiano - per le stesse infrazioni contestate al ricorrente. In definitiva, tenuto anche conto del fatto che le altre persone coinvolte nella vicenda - si pensi soprattutto a D. e E. - sono perseguite nello Stato rogante, l'unità della procedura è (meglio) garantita in Italia.
6. Invocando il suo miglior reinserimento sociale in Svizzera (censura già trattata precedentemente, v. consid. 3 supra), l'estradando afferma che la decisione impugnata sarebbe contraria all'art. 8 CEDU, dato che la sua famiglia, moglie e tre figli, si troverebbe in Svizzera.
6.1 L'art. 8 CEDU non conferisce il diritto di risiedere sul territorio di uno Stato o di non essere espulso o estradato (v. sentenza del Tribunale federale 1A.9/2001 del 16 febbraio 2001, consid. 3c). Qualsiasi pena subita compromette le relazioni familiari e professionali; tali conseguenze non possono essere invocate per opporsi a un'estradizione (DTF 120 Ib 120 consid. 3d). Nelle cause d'estradizione in cui l'art. 8 CEDU è stato invocato, la giurisprudenza sia nazionale che europea si è sempre fondata sulla cifra 2 di tale disposizione per affermare che l'ingerenza nel diritto alla protezione della famiglia era una conseguenza inevitabile, e quindi accettabile, dell'estradizione (DTF 117 Ib 210 consid. 3b/cc con riferimenti). Tale disposizione può tuttavia essere di ostacolo all'estradizione se quest'ultima appare come un'ingerenza sproporzionata nella vita familiare dell'interessato (DTF 129 II 100 consid. 3.5). Il Tribunale federale ha così rifiutato un'estradizione alla Germania richiesta per l'esecuzione di un saldo di pena di 473 giorni di prigione per un reato di ricettazione. L'interessato aveva due figlie minori in Svizzera e la carcerazione aveva messo la sua compagna, invalida al 100% e incinta di un terzo figlio, in uno stato ansio-depressivo generatore d'idee suicidarie. In tali circostanze, la Svizzera ha potuto incaricarsi dell'esecuzione sul suo territorio del saldo di pena ancora da scontare (v. DTF 122 II 485 consid. 3 e 4 entrambi non pubblicati). L'Alta Corte federale ha tuttavia avuto l'occasione, in una causa ulteriore, di precisare che un tale rifiuto era del tutto eccezionale e non entrava in linea di conto in altre circostanze (sentenza del Tribunale federale 1A.9/2001 del 16 febbraio 2001, consid. 3c)
6.2 In concreto, non ci si trova certamente in un caso analogo a quello sopra descritto. La situazione familiare che emerge dall'incarto non è problematica e non permette di affermare che l'estradizione del ricorrente avrebbe conseguenze per la sua famiglia paragonabili, anche solo minimamente, a quelle alla base della DTF 122 II 485, comportando i normali inconvenienti, certo seri ma legati di per sé all'espiazione di qualsiasi pena detentiva, rispettivamente di qualsiasi esperienza di custodia cautelare in carcere. Su questo punto il ricorso deve ugualmente essere respinto.
7. L'estradando censura una violazione del divieto di discriminazione in base alla cittadinanza previsto dagli accordi tra la Svizzera e l'Unione europea. Al beneficio di un permesso di domicilio CE/AELS fondato sulla nazionalità italiana e domiciliato in Svizzera da 20 anni, egli non potrebbe essere discriminato per rapporto ad un cittadino svizzero, non estradabile.
7.1 Giusta l'art. 6 n. 1 lett. a CEEstr, ciascuna Parte contraente avrà la facoltà di rifiutare l'estradizione dei suoi cittadini. La Svizzera ha formulato una riserva a tale disposizione, affermando che il diritto svizzero autorizza l'estradizione di cittadini svizzeri soltanto alle condizioni restrittive previste all'art. 7 AIMP, il quale prevede, al suo cpv. 1, che, salvo che vi acconsenta per scritto, nessuno svizzero può essere estradato o consegnato a uno Stato estero a scopo di perseguimento o esecuzioni penali. Il consenso può essere revocato fintanto che non sia ordinata la consegna. Secondo l'art. 2 dell'Accordo tra la Confederazione Svizzera, da una parte, e la Comunità europea ed i suoi Stati membri, dall'altra, sulla libera circolazione delle persone (ACL; RS 0.142.112.681), in conformità delle disposizioni degli allegati I, II e III dell'ACL, i cittadini di una parte contraente che soggiornano legalmente sul territorio di un'altra parte contraente non sono oggetto, nell'applicazione di dette disposizioni, di alcuna discriminazione fondata sulla nazionalità.
7.2 Nella fattispecie, occorre rilevare che il principio di non discriminazione è applicabile unicamente alle materie previste negli allegati I, II e III dell'ACL. Orbene, tali allegati riguardano, nell'ordine, la libera circolazione dei lavoratori, il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale nonché il reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali, non quindi la cooperazione giudiziaria internazionale, più precisamente il diritto in materia di estradizione. Va aggiunto inoltre che la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (v. sentenza C-42/11 del 5 settembre 2012) citata dal ricorrente, secondo la quale una riserva emessa solo a favore dei propri cittadini per rifiutare di eseguire un mandato di arresto europeo ai fini dell'esecuzione di una pena, ad esclusione dei cittadini di altri stati membri, sarebbe lesiva del principio di non discriminazione previsto all'art. 18 del Trattato di funzionamento dell'Unione europea, il quale avrebbe lo stesso contenuto dell'art. 2 ALC, non è applicabile nella fattispecie, visto che la suddetta sentenza riguardava un cittadino portoghese e che la Svizzera, contrariamente al Portogallo, non fa parte dell'Unione europea, né soggiace del resto alla relativa giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea. La censura in questo ambito va dunque disattesa.
8. L'estradando afferma che una sua estradizione all'Italia violerebbe l'art. 3 CEDU e 7 Patto ONU II. Egli richiama la sentenza dell'8 gennaio 2013 della Corte europea dei diritti dell'uomo nel caso Torreggiani ed altri, la quale avrebbe condannato l'Italia, sulla base della summenzionata disposizione, per le inaccettabili condizioni di carcerazione vigenti in alcune sue strutture, tra le quali quella di Busto Arsizio, laddove egli sarebbe destinato in caso di estradizione.
8.1 Gli standard minimi di protezione dei diritti individuali derivanti dalla CEDU o dal Patto ONU II fanno parte dell'ordine pubblico internazionale. Tra tali diritti figura il divieto di tortura nonché di trattamenti crudeli, inumani o degradanti (art. 3 CEDU e art. 7 Patto ONU II; cfr. anche art. 3 della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984 [RS 0.105], nonché la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del 26 novembre 1987 [RS 0.106]). Sebbene la CEDU non garantisca il diritto di non essere espulso o estradato in quanto tale, quando una decisione di estradizione lede, per le sue conseguenze, l'esercizio di un diritto garantito dalla convenzione, essa può, se le ripercussioni non sono troppo indirette, mettere in gioco gli obblighi di uno Stato contraente sulla base della disposizione corrispondente (DTF 123 II 279 consid. 2d, 511 consid. 6a, con i rinvii alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo). La Svizzera veglia a non prestare il suo appoggio sia attraverso l'estradizione che attraverso la cosiddetta altra assistenza a procedure che non garantirebbero alla persona perseguita uno standard di protezione minima corrispondente a quello offerto dal diritto degli Stati democratici, definito in particolare dalla CEDU o dal Patto ONU II, o che si troverebbero in contrasto con norme riconosciute come appartenenti all'ordine pubblico internazionale (DTF 130 II 217 consid. 8.1; 126 II 324 consid. 4a; 125 II 356 consid. 8a; 123 II 161 consid. 6a, 511 consid. 5a, 595 consid. 5c; 122 II 140 consid. 5a; sentenza del Tribunale federale 1A.17/2005 del 11 aprile 2005, consid. 3.1; v. anche TPF 2008 24 consid. 4.1; sentenze del Tribunale penale federale RR.2007.142 del 22 novembre 2007, consid. 6.1; RR.2007.44 del 3 maggio 2007, consid. 5.1; RR.2007.55 del 5 luglio 2007, consid. 9). Nessuno può essere rinviato in uno Stato in cui rischia la tortura o un altro genere di trattamento o punizione crudele o inumano (art. 25 cpv. 3 Cost.; DTF 133 IV 76 consid. 4.1, con rinvii).
8.2 Secondo l'art. 37 cpv. 3 AIMP, l'estradizione è negata se lo Stato richiedente non offre garanzia che la persona perseguita nello Stato richiedente non sarà sottoposta ad un trattamento pregiudizievole per la sua integrità fisica. Il Tribunale federale ha avuto modo di approfondire la problematica delle garanzie diplomatiche fornite dallo Stato richiedente quali condizioni per l'estradizione nella DTF 134 IV 156. Nella sua analisi, esso ha proceduto ad una suddivisione tripartita della casistica legata all'impiego di garanzie. Nella prima categoria figurano i casi concernenti i Paesi con una provata cultura dello Stato di diritto - in particolare i Paesi occidentali -, i quali, dal punto di vista dell'art. 3 CEDU, non presentano di regola nessun rischio per le persone perseguite che vi devono essere estradate. In questi casi
l'estradizione viene concessa senza pretendere garanzie. Nella seconda categoria sono invece compresi i casi riguardanti quegli Stati nei quali vi sono seri rischi che la persona perseguita possa subire maltrattamenti proibiti; in tali casi il rischio è contrastato o minimizzato mediante garanzie fornite dallo Stato richiedente, in modo che lo stesso rimanga solo teorico. Un tale rischio teorico di trattamenti contrari ai diritti umani, in quanto sempre presente, non è sufficiente per rifiutare l'estradizione. In caso contrario, le estradizioni non sarebbero più possibili, il che renderebbe di fatto impraticabile un'efficace politica di contrasto internazionale alla criminalità e quindi l'adempimento di un preciso impegno che la Confederazione si è assunta nei numerosi trattati conclusi in questo ambito. Vi è infine una terza categoria, nella quale il rischio di trattamenti contrari ai diritti umani non può, neanche con l'ausilio di garanzie diplomatiche, né essere minimizzato né essere reso solamente teorico (v. DTF 134 IV 156 consid. 6.7). Determinare in quale categoria un caso debba essere inserito implica una valutazione dei rischi nel Paese in esame. È innanzitutto necessario procedere all'analisi della situazione dei diritti umani in generale nello Stato richiedente. In seguito - ed è questo il criterio più importante -, occorre verificare se la persona perseguita, nella fattispecie e tenuto conto di circostanze particolari e reali, rischia di essere esposta a pericoli concreti (DTF 134 IV 156 consid. 6.8).
8.3 Con sentenza dell'8 gennaio 2013, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha constatato una violazione da parte dell'Italia dell'art. 3 CEDU (v. cause congiunte n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, Torreggiani ed altri contro Italia). La Corte ha ritenuto "che i ricorrenti non abbiano beneficiato di uno spazio vitale conforme ai criteri da essa ritenuti accettabili con la sua giurisprudenza. Essa desidera rammentare ancora una volta in questo contesto che la norma in materia di spazio abitabile nelle celle collettive raccomandata dal CPT è di quattro metri quadrati" (v. n. 76). Essa ha anche osservato "che la grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi, costitutiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione, sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l'illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un'ulteriore sofferenza, benché non costituiscano di per sé un trattamento inumano e degradante" (v. n. 77). La Corte ha ritenuto "che le condizioni detentive in questione, tenuto conto anche della durata della carcerazione dei ricorrenti, abbiano sottoposto gli interessati ad una prova d'intensità superiore all'inevitabile livello di sofferenza inerente la detenzione" (v. n. 78). Nel dispositivo della sentenza, la Corte ha dichiarato "che lo Stato convenuto dovrà, entro un anno a decorrere dalla data in cui la presente sentenza sarà divenuta definitiva in virtù dell'articolo 44 § 2 della Convenzione, istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario, e ciò conformemente ai principi della Convenzione come stabiliti nella giurisprudenza della Corte (v. punto 4). Essa ha anche dichiarato "che, in attesa che vengano adottate le misure di cui sopra, la Corte differirà, per la durata di un anno a decorrere dalla data in cui la presente sentenza sarà divenuta definitiva, la procedura in tutte le cause non ancora comunicate aventi unicamente ad oggetto il sovraffollamento carcerario in Italia riservandosi la facoltà, in qualsiasi momento, di dichiarare irricevibile una causa di questo tipo o di cancellarla dal ruolo a seguito di composizione amichevole tra le parti o di definizione della lite con altri mezzi, conformemente agli articoli 37 e 39 della Convenzione" (v. punto 5).
8.4 Nella fattispecie va rilevato che, mediante nota verbale spontanea del 17 giugno 2013 l'Ambasciata d'Italia a Berna ha comunicato all'UFG che "il Ministero della Giustizia italiano ha fatto sapere che, in caso di accoglimento della domanda di estradizione, verranno assicurate condizioni detentive nel pieno rispetto delle disposizioni dell'art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (...). Il Ministero della Giustizia italiano comunica anche che, "in caso di consegna in estradizione di A., lo stesso non dovrà essere necessariamente ristretto presso la Casa Circondariale di Busto Arsizio potendo essere associato in altro istituto penitenziario più vicino al confine svizzero, anche al fine di agevolare eventuali visite dei familiari, residenti a Lugano" (v. act. 6.10). È evidente che le garanzie offerte dallo Stato richiedente in una nota verbale spontanea e posteriore alla sentenza Torreggiani perseguano appunto lo scopo di assicurare le autorità svizzere che nella fattispecie tutte le esigenze di cui all'art. 3 della CEDU saranno rispettate. Va da sé che una simile garanzia, sia pur espressa in termini generici, comprende anche l'esigenza del collocamento, in caso di detenzione dell'estradato, in una struttura carceraria di uno spazio vitale individuale di almeno 4m 2. Apparterrà all'UFG verificare, alle condizioni e nella forma che riterrà più opportuna, che la struttura carceraria in cui l'estradando verrà collocato ossequi la predetta condizione. Visto quanto precede, alla luce delle formali garanzie spontaneamente offerte dallo Stato richiedente nella presente fattispecie, lo Stato richiesto non ha ragioni di credere che l'estradando, qualora posto in arresto, non sarebbe detenuto in ossequio alle esigenze dell'art. 3 della CEDU. In definitiva, tenuto conto del principio della buona fede tra Stati (v. DTF 121 I 181 consid. 2c/aa; 101 Ia 405 consid. 6bb), visti gli estremi del caso, non vi sono ragioni di dubitare della formale garanzia offerta dallo Stato richiedente. Ne consegue che la censura va disattesa.
9. L'estradando ritiene, infine, che la delega all'Italia del perseguimento dei reati di riciclaggio commessi in Svizzera sia troppo vaga ed ambigua, non essendo per nulla chiaro il perseguimento di quali reati in concreto possa assicurare l'Italia e quali eventualmente resterebbero scoperti, fermo restando che l'Italia non costituirebbe per lui il luogo di miglior reinserimento sociale.
9.1 Giusta l'art. 88 AIMP, si può chiedere a uno Stato estero di assumere il perseguimento penale per un reato soggetto alla giurisdizione svizzera se la sua legislazione ne ammette il perseguimento e la repressione giudiziaria e la persona perseguita: dimora in questo Stato e la sua estradizione alla Svizzera è inappropriata o inammissibile (lett. a), o è estradata a questo Stato e la delega del perseguimento penale ne consentirà verosimilmente un migliore reinserimento sociale (lett. b). In questo ambito, il Tribunale federale ha già avuto modo di affermare che, oltre al migliore reinserimento sociale, altri elementi possono ugualmente essere presi in considerazione. Esso ha quindi rinviato ai criteri enumerati all'art. 8 OAIMP in relazione con l'art. 19 AIMP (v. sentenza del Tribunale federale 1A.117/2000 del 26 aprile 2000, consid. 2a), segnatamente il centro di gravità della procedura penale (v. sentenza del Tribunale federale 1A.103/2005 dell'11 luglio 2005, consid. 4.1).
9.2 Nella fattispecie, occorre anzitutto rilevare che l'estradando ha vissuto diversi anni in Italia, integrandosi, circostanza dimostrata dal fatto di aver ottenuto la cittadinanza di quel Paese. In secondo luogo, l'autorità rogante si è addirittura dichiarata pronta a collocarlo in un istituto penitenziario vicino al confine con la Svizzera, al fine di facilitare i contatti con la famiglia in Ticino. Ma ciò che risulta determinante nella fattispecie è che il centro di gravità della vicenda penale si trova indubbiamente in Italia, elemento qui decisivo (v. consid. 3.2.2 supra). Significativo e calzante in concreto è quanto già evidenziato da ZIMMERMANN, secondo il quale "dans certains cas, il est arrivé que des procédures pénales soient ouvertes en Suisse en relation avec des faits de blanchissage du produit d'infractions commises à l'étranger, notamment de la corruption ou des détournements de fonds publics. Le rattachement avec la Suisse existe, puisque c'est là que les fonds ont été repérés et saisis. En revanche, l'essentiel des moyens de preuve et des témoins (ainsi que, parfois, les auteurs) se trouvent à l'étranger. Très rapidement, l'enquête en Suisse butte sur des obstacles difficiles à surmonter, liés à la difficulté d'éclaircir tous les détails des faits, d'entendre les témoins, de procéder à des mesures de contrainte, etc. Demander l'entraide à l'étranger peut, dans un tel contexte, se heurter à toutes sortes d'embûches. Après plusieurs mois (ou années) d'efforts, la délégation de la poursuite à l'Etat du lieu de l'infraction principale apparaît non seulement comme la solution appropriée, mais la seule envisageable, à peine d'un enlisement inexorable de la procédure" (v. op. cit., n. 748). In definitiva, giustificandosi la delega del perseguimento, la censura del ricorrente va respinta.
10. In conclusione, non vi è nessuna ragione per negare l'estradizione. Ne consegue che il ricorso deve essere respinto .
11. Soccombente, il ricorrente deve sopportare una parte delle spese (v. art. 63 cpv. 1 PA richiamato l'art. 39 cpv. 2 lett. b LOAP), fissate nel caso concreto a fr. 3'000.-- e poste a suo carico. Esse sono coperte dall'anticipo già versato.

Per questi motivi, la Corte dei reclami penali pronuncia:

1. Il ricorso è respinto.

2. La tassa di giustizia di fr. 3'000.-- è posta a carico del ricorrente. Essa è coperta dall'anticipo dei costi già versato.

Bellinzona, 16 ottobre 2013
In nome della Corte dei reclami penali
del Tribunale penale federale
Il Presidente : Il Cancelliere :
Comunicazione a:

- Avv. Luca Marcellini
- Ufficio federale di giustizia, Settore Estradizioni
Informazione sui rimedi giuridici
Il ricorso contro una decisione nel campo dell'assistenza giudiziaria internazionale in materia penale deve essere depositato presso il Tribunale federale entro 10 giorni dalla notificazione del testo integrale della decisione (art. 100 cpv. 1 e 2 lett. b LTF). Il ricorso è ammissibile soltanto se concerne un'estradizione, un sequestro, la consegna di oggetti o beni oppure la comunicazione di informazioni inerenti alla sfera segreta e se si tratti di un caso particolarmente importante (art. 84 cpv. 1 LTF). Un caso è particolarmente importante segnatamente laddove vi sono motivi per ritenere che sono stati violati elementari principi procedurali o che il procedimento all'estero presenta gravi lacune (art. 84 cpv. 2 LTF).

lunedì 28 ottobre 2013

Soldati in India e Affari Sporchi.

Ho unito tutte e tre la parti dell'articolo di C. Alessandro Mauceri di "Qui Europa" Molto interessante

 Oltre la VeritàUfficiale: I Misteri del Caso Marò Prima Parte
Versioni diverse, Corpi spariti, Dati discordanti
La Strana paralisi dell'Ue e degli Organismi Internazionali 
Oltre la Cappa Mediatica – L'Analisi di "Qui Europa"

di C.Alessandro Mauceri











 I Retroscena del "Caso Marò" – Dietro la "verità ufficiale" 
Roma, New Delhi, Kerala, Kochi – Nelle ultime ore, Il ministro della Difesa indiano A.K. Antony – all'Agenzia di stampa PTI – ha sostenuto che i due marò italiani sono ritornati in India grazie all' "atteggiamento deciso" della Corte Suprema e del governo del Paese."La questione è stata risolta – ha dichiarato – senza molti problemi con il deciso atteggiamento assunto dalla Corte Suprema e il suo energico intervento. Anche il governo – ha aggiunto – ha lavorato sulla stessa lunghezza d'onda ottenendo che i marò tornassero qui per essere sottoposti a processo. E su questo – ha concluso – le autorità di New Delhi hanno sostenuto i sentimenti del governo del Kerala, dove l'incidente é avvenuto il 15 febbraio 2012, con la morte di due pescatori". Secondo un noto costituzionalista indiano, Fali Sam nariman, i due italiani non correrebbero rischi di pena capitale, ma la certezza in questi casi è un qualcosa di inafferrabile e altamente aleatorio.
 Enrica Lexie – La Realtà potrebbe essere ben diversa 
Da oltre un anno,  ormai, la cronaca internazionale non lascia passare giorno senza raccontare ciò che avviene ai nostri due connazionali accusati di omicidio dal governo indiano. In realtà, dietro tutta questa faccenda, che dura ormai da troppo tempo, la realtà potrebbe essere ben diversa da quella che apparirebbe semplicemente ascoltando i telegiornali. Innanzitutto, i fatti. Ebbene da una disamina anche solo un tantino meno superficiale, rispetto a quanto fatto da chi si è limitato a riportare comunicati stampa, degli atti e delle dichiarazioni ufficiali della Polizia, della Guardia Costiera di Kochi, dei testimoni locali e dei giudici di Kerala emergono molte anomalie. Anomalie che i legali dei due Marò detenuti in India avrebbero dovuto far rilevare e far valere  e che, invece, chissà perché sono state dimenticate.  Cominciamo dall’inizio. I verbali della polizia e della Guardia Costiera di Kochi riportano che il peschereccio St. Antony con le due vittime a bordo sarebbe rientrato in porto alle 18:20, quando il sole era alto (quel giorno stando ai dati ufficiali è tramontato alle 19:47). Eppure i filmati delle televisioni locali mostrano che il rientro della nave sarebbe avvenuto molto più tardi quando era già buio pesto.
  Diverse versioni e dati discordanti 
Andiamo avanti. Sempre secondo la Guardia Costiera, il peschereccio indianosarebbe rientrato in porto, quasi cinque ore prima della nave Enrica Lexie su cui si trovavano i due Marò e ciò nonostante la sua velocità massima sia nettamente inferiore a quella della nave italiana. I pescatori, appena a terra, avrebbero dichiarato di non aver visto nulla, in quanto tutti sotto coperta e in sonno pieno, ad eccezione dei due colleghi colpiti e deceduti e che quindi non possono testimoniare. Solo pochi giorni dopo, questadichiarazione sarebbe stata cambiata e i pescatori avrebbero fornito i dati per il riconoscimento della nave. Cambiamento che tuttavia non sarebbe decisivo per l’accusa: icolori della nave italiana, infatti, sono simili a quelli di molte altre navi in quel momento presenti nella zona, almeno quattro.
 Una curiosa omissione – Perchè? 
Anche le procedure di rientro in porto sarebbero, a dir poco, anomale. In base agliaccordi internazionali, come il Codice Internazionale della Navigazione, e agli Accordi Nato (di cui sia India che Italia farebbero parte e che coprono l’operato dei militari all’estero, in base al cosiddetto “Diritto di Bandiera”) il governo indiano non avrebbe dovuto chiedere il rientro in porto della nave italiana omettendo di informarlache erano indagati: la Guardia Costiera, infatti, ha chiamato via radio tutte le navi in zona invitandole a rientrare a Kochi per “identificare una barca di pirati” che aveva già catturato.
 Spunta l'Olimpic Flair – Vi fu un altro conflitto in mare?  
Proprio in quelle ore, infatti, pare che si sia verificato un altro conflitto a fuoco tra una nave greca, la Olimpic Flair, molto simile alla Enrica Lexie e con a bordo guardie armate, e una nave di presunti “pirati”. Del resto, gli scontri armati in quelle acque pare siano all’ordine del giorno, oltre che per la presenza di pirati anche per la presenza di navi da guerra essendo l’India, di fatto, in guerra con altri Paesi. Resta il fatto che delle cinque navi presenti nella zona, quattro si sarebbero dileguate al largo. L’unica a rientrare sarebbe stata quella italiana. Singolare anche lo slancio nel "perseguitare" (?) i due militari italiani, spintosi fino al punto di proibire ai tecnici del Ros (Carabinieri) di essere presenti alla prova balistica. Non a caso l’analisi balistica sui progetti avrebbe identificato armi diverse da quelle in dotazione ai nostri militari.
 Corpi spariti – Una cremazione lampo 
Anche le procedure successive sarebbero state, a dir poco, anomale. Le uniche indicazioni interessanti potevano provenire da un esame autoptico dei corpi delle due vittime, ma questa possibilità è stata negata alla difesa, visto che gli stessi sono stati cremati nel giro di poche ore. Perchè – ci chiediamo – cremare dei corpi di reato che coinvolge due diversi Paesi e dove quindi le controversie potrebbero richiedere un approfondimento di indagini? La stessa  nave italiana sarebbe stata in base ai rilievi del radar in posizione diversa da quella in cui il peschereccio indiano è stato attaccato. Chi volesse conferma di ciò può leggere l’analisi della vicenda effettuata dall’Ingegner Luigi Di Stefano(disponibile sul sito http://www.seeninside.net/piracy/index.htm) perito – pare – di chiara fama che, tra l’atro, ha collaborato nel corso del processo sulla strage di Ustica.
 Siria – Tacete! Altrimenti è la Morte 
Anche il coinvolgimento di Onu e Nato in questa vicenda pare essere, a dir poco, anomalo. La presenza di militari armati a bordo di navi mercantili, deriva infatti (ma di questo i media non parlano) non da una scelta arbitraria e eccessiva del nostro Paese, ma dalle linee guida dell’IMO (International Maritime Organization: organismo dell’Onu preposto alla disciplina dei traffici marittimi) e dalle disposizioni Ue e Nato in materia di contrasto alla pirateria nelle acque vicine. Ebbene, nessuna di queste organizzazioni ha proferito parola in merito a quanto avvenuto o è intervenuta imponendo il rispetto dei trattati sottoscritti da Italia e India. Ma allora – ci chiediamo – a che servono questi accordi? L’unico intervento è stato quello di Catherine Ashton, l'Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza dell'Unione Europea. Intervento blando e a tutt’oggi, come dimostrano i fatti, assolutamente inutile. Come spesso accade!
 Val di Fiemme, Italia – Nel 1998 andò diversamente 
Eppure, in altri casi, le cose erano andate diversamente. Nel 1998 un aereo militare statunitense pilotato Richard Ashby, decollato dalla base aerea di Aviano, per una bravata del pilota in violazione di tutte le norme di volo, tranciò le funi che reggevano lafunivia del Cermis, in Val di Fiemme. La cabina precipitò da un'altezza di circa 150 metri schiantandosi al suolo. Nella strage morirono venti persone di diverse nazionalità. I pubblici ministeri italiani richiesero di processare i quattro marine in Italia, ma il giudice per le indagini preliminari impose che, in forza della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 sullo statuto dei militari Nato, la giurisdizione sul caso dovesse riconoscersi alla giustizia militare statunitense. Nel giro di pochi giorni i militari statunitensi rientrarono i patria e, alla fine, solo il pilota e il suo navigatore furono chiamati a comparire davanti a un tribunale militare americano e solo per rispondere dell'accusa di omicidio colposo. Nel 1999 la giuria assolse Ashby e anche le accuse di omicidio colposo nei confronti di Schweitzer non ebbero seguito. Nel maggio del 1999 entrambi furono degradati e rimossi dal servizio e il pilota fu condannato a sei mesi di detenzione (poi addirittura  scesi a quattro) per intralcio alla giustizia (avevano distrutto il nastro che dimostrava la loro colpevolezza).
 Oltre la Verità Ufficiale – I Misteri del Caso Marò 
Forse sarebbe stato meglio che i nostri Marò avessero chiesto assistenza agli stessi legali dei due militari americani, perché quelli che li assistono pare abbiano dimenticato che esistono precise leggi e accordi internazionali che tutelano i diritti dei nostri militari. A prescindere - ovviamente dalla loro presunta colpevolezza o innocenza – Di certo poi, a rinfrescare loro la memoria non sono intervenuti né i responsabili di organismi internazionali come ONU e Nato, in primis, né i nostri politici. Ma, allora, perché tutto ciò?  Forse, la verità e le cause di tutto questo sono da cercare altrove. Forse non servirebbe a far tornare immediatamente i nostri soldati in Italia, ma, almeno, servirebbe a far capire alle famiglie dei nostri Marò per quale motivo i loro congiunti, da oltre un anno ormai, fanno avanti e indietro dall’India, con il rischio di essere “condannati a morte pur –è un'ipotesi – non avendo commesso il fatto”. Anche la beffa dei nostri diplomatici, che avevano assicurato che non esisteva per loro il rischio di una condanna a morte, è stata immediatamente smentita dalle autorità indiane: il rischio esiste, eccome. Forse, sapere che il sacrificio dei loro congiunti (perché di questo potrebbe trattarsi fino a prova contraria) potrebbe servire al Paese al quale loro hanno giurato fedeltà, renderebbe meno amara la medicina che stanno cercando di mandare giù. Ma forse il problema è proprio questo: siamo certi che tutto ciò davvero serva al nostro Paese? E cosa accadrebbe se venisse detto ai nostri soldati che la situazione in cui si trovano, non è conseguenza del fatto che loro hanno giurato di servire l’Italia, ma serve a permettere a “qualcun altro” di fare qualcosa? (Continua…)
Le Verità Occultate sul Caso Marò e le Dimissioni del
Ministro Terzi 
Ecco cosa blocca la macchina diplomatica e sovrasta
il Diritto: una fittissima rete di intrecci commerciali
Roma, New Delhi, Kerala, Kochi – Nelle ultime ore sono giunte – era ora – le dimissioni del Ministro degli Esteri  Giulio Terzi, "caduto" non per la linea ambigua (per non dire vergognosa) mantenuta per tutto il 2012 e anche oltre sul "Caso Siria" e – in generale – su tutta la politica estera imperialistica italiana (filo-Nato e filo-Usa), ma proprio sul "Caso Marò", e sul ri-espatrio dei due fucilieri italiani in India, favorito e non osteggiato dallo stesso Terzi. L’annuncio è stato dato, nelle ultime ore, in occasione del suo intervento in Parlamento, nell’aula di MontecitorioMa tornando al misterioso incidente diplomatico, cerchiamo ora di comprendere cosa si possa davvero nascondere dietro questa brutta storia, al di là della solita ormai costante cappa mediatica che contraddistingue l'informazione (di regime) nel nostro Paese. 
 Le Dimissioni di Terzi e l'Ennesimo Disastro del "Tecnico" 
"Secondo gli ultimi dispacci di agenzia, si apprende – sosteneva in sostanza un comunicato governativo della Farnesina – che i due Italiani non rischierebbero la pena di morte. Quanto al carcere, lo potrebbero scontare in Italia". Sono state queste – per sommi capi – le rassicurazioni con le quali il nostro governo ha convinto i due accusati a tornare nel Paese che li aveva arrestati ricorrendo a stratagemmi poco diplomatici e che, forse, se la controparte non fosse stata l’Italia, ma un altro Paese, avrebbero scatenato uno scontro diplomatico di ben altre dimensioni. Ciò era avvenuto dopo aver sostenuto che i nostri militari – coinvolti in un affare internazionale dai risvolti più grandi di loro e non di poco – non sarebbero dovuti rientrare in India. Ma non finisce qui! Al ritorno dei fucilieri in India, il ministro della Giustizia indiano, Ashwani Kumar, ha tenuto a precisare come il governo indiano in realtà non avrebbe fornito alcuna assicurazione all'Italia in merito all'inflizione della pena di morte (che pure non è applicata da molti anni). Ebbene secondo alcuni quotidiani, il Ministro degli Esteri italiano dimissionario, Giulio Terzi, che aveva dato la notizia sbagliata (e, a quanto pare, aveva anche dimenticato di informarne il presidente Napolitano) in un primo momento aveva affermato che la sua era stata solo una “svista” e che non ci pensava proprio a dimettersi.   Poi nelle ultime ore – per cause di forza maggiore – è giunto l'evidente e provvidenziale ripensamento. Terzi – tuttavia – affermava poco prima delle dimissioni, come i due Marò' "non avessero corso rischi, e non sarebbero andati incontro a un destino ignoto", perchè "la situazione si stava normalizzando" visto l'ottenimento da parte dell'Italia della precisa garanzia da New Delhi sull'inapplicabilità della suddetta pena capitale. E così, ancora una volta, alle ripetute affermazioni dei nostri diplomatici in merito a rassicurazioni circa il destino dei nostri soldati,  un giudice dell’Alta Corte di Kerala ha pensato bene di definire la presunta sparatoria attribuita ai Fucilieri di Marina italiani, un atto terroristicoIn realtà, questa sarebbe solo l’ultima delle anomalie (per voler usare un eufemismo) nascoste da una vicenda dagli evidenti e grotteschi chiaroscuri.
 India – Il Mercato del Terzo Millennio 
La verità è che i nostri funzionari si sono trovati di fronte una delle maggiori potenze mondiali con un Pil che, a parità di potere d’acquisto, è già ora pari a un quarto di quello di tutti i Paesi della Terra. Un Paese (l'India) con un apparato bellico possente, dotato ditestate nucleari e – ciliegina sulla torta – 1,3 milioni di militari regolariL’India, il cui trend economico è, forse, ancor più robusto di quello della stessa Cina, è un colosso la cuiindustria manifatturiera è la decima del pianeta. Nella classifica del Financial Times, Global 500, che raggruppa le cinquecento maggiori società del pianeta per capitalizzazione, l’India compare ben 14 volteE l’Italia? Tralasciando le ovvie considerazioni sulla dimensione economica e sul potenziale militare del nostro Paese confrontati con quello di uno dei colossi globali (comparabile solo con USA e Cina) anche sotto il profilo dei rapporti economici “negli anni del boom economico indiano, l’Italia appare essersi mossa un pò in ritardo” come ha affermato – tra l'altro – il professor Stefano Beggiora, docente di storia dell’India presso l’Università Cà Foscari Venezia, autore del saggio "India e Nordest: il mercato del terzo Millennio".

Una Questione di "puri" e semplici "Affari Economici" 
In realtà, sembrerebbe che a destare la preoccupazione delle nostre autorità in questo momento particolare siano gli imprenditori italiani che già detengono (o che vorrebbero stabilire)  rapporti economici con l’India. La paura che deriverebbe dall’indurirsi dei rapporti diplomatici tra i due Paesi, è quella di vedere scoppiare una vera e propria crisi commerciale tra Italia e India che potrebbe mettere a rischio i rapporti commerciali già esistenti e i contratti in opera. E se è vero che il colosso del Sud est asiatico rappresenta al momento solo il sedicesimo partner commerciale dell’Italia, con un valore delle esportazioni che nel 2010 è stato di circa 3,5 miliardi di euro, cioè solo l’1% del totale, c’è da considerare che i dati del 2011, ancora provvisori, dicono che questo valore tenderà a crescere rapidamente. Le esportazioni italiane verso l’India aumentano con un tasso del 21% l'anno. Non solo, ma i rapporti commerciali già istaurati pare riguardino proprio quelle aziende di grandi dimensioni che hanno dimostrato di avere maggiore capacità di influenzare scelte politiche nazionali. Come se non bastasse, anche i clienti cui i nostri prodotti sono destinati non sono soggetti qualunque. Uno dei maggiori clienti delle imprese italiane, ad esempio, sono le Forze Armate Indiane. In pochi anni, le nostre aziende produttrici di materiale bellico sono divenute fornitrici di fiducia di Nuova Delhi. Hanno venduto molto, e molto intendono ancora vendere. Fincantieri nel 2008 ha fornito all’Istituto Oceanografico indiano la nave oceanografica da 5mila tonnellate Sagar Nidhi. Pochi mesi fa è stata consegnata all’India la seconda di due grandi navi rifornitrici di squadra da 27mila 500 tonnellate per la Marina indiana. Un contratto da oltre 300 milioni di euro che si somma a quello per la progettazione di sette fregate da 6mila 200 tonnellate della nuova classe P17A, che hanno fruttato all’industria italiana circa 30 milioni di Euro. Non solo, ma è in ballo l’appalto per la realizzazione di queste navi (ognuna del costo di 900 milioni di dollari) che saranno costruite in due cantieri indiani, il Mazagon Dock di Mumbai e il Garden Reach di Kolkata. Appalto che interessa e non poco Fincantieri che aspira a fornire assistenza e tecnologia nel settore delle costruzioni navali modulari, un know how che i cantieri locali non posseggono ancora. AncheAlenia Aeronautica e altre industrie italiane per molti mesi sono state interessate al mercato indiano. Infatti sono loro che producono alcune parti dei caccia realizzati dal consorzio Eurofighter, che ha partecipato ad una gara internazionale per la vendita di126 caccia all’Aeronautica indiana, in base al Programma MMRCA (Medium Multi-Role Combat Aircraft) per un costo complessivo di almeno 12 miliardi dollari. (Alla fine la gara è stata vinta, però, da un concorrente anche questo europeo). Anche la Camera di Commercio Indiana per l’Italia è molto attiva, infatti ha in programma di organizzare dal 13 al 18 Aprile 2013 una missione commerciale multisettoriale a Mumbai. Molto probabilmente, la verità è che l’India, oggi, in un mondo caratterizzato da economie inaccessibili e da mercati in calo, desta, con i propri numeri, enormi interessi da parte delle maggiori aziende di tutti i Paesi industrializzati. Come dicevamo l’India è dotata di un proprio arsenale nucleare che nessuno si permette di criticare  (ma – ci chiediamo – che accadrebbe se al posto del colosso asiatico vi fossero l’Iraq, l’Afghanistan, il Mali o anche la Siria?). 
 L'India Nascosta – Dal Nucleare alle Sperimentazioni su Cavie Umane 
Ma anche sotto il profilo civile le scelte dell’India per il nucleare sembrano non tener conto del disastro verificatosi a Fukushima: tra poco a Jaitapur, nello stato del Maharashtra, verrà costruito il più grande parco nucleare al mondo: 9.900 MW prodotti da 6 reattori. E a niente sono valse le proteste della popolazione per impedire che ciò avvenisse. Ovviamente, molti media internazionali hanno dedicato poca attenzione all’evento, anche perché la tecnologia che ha permesso all’India di accrescere il numero di centrali nucleari sul proprio territorio è stata fornita da imprese europeeIn realtà, per poter accedere a questi mercati, fino ad oggi chiusi e resi impossibili grazie a barriere economiche invalicabili anche per industrie di dimensioni (e di potere) ben maggiori di quelle italiane, tutti (e va sottolineato non una, ma due volte, tutti) i Paesi del mondo hanno fatto finta di non vedere cosa stava (e sta) accadendo in quello che da molti viene definito un microcontinente. Nessuno ha visto  il prosperare della potenza missilistica nucleare dell’India. Così come  nessuno sa niente del fatto che in India (come del resto in altri Paesi)  per le sperimentazioni cliniche e farmacologiche si fa ricorso a cavie umane. Eppure sono notizie alcuni magazine internazionali, la BBC, The Independent, il Washington Post, hanno riportato e documentato denunciando un indegno sfruttamento di cavie umane da parte delle industrie del farmaco. Secondo il Washington Post, il fenomeno avrebbe visto una repentina accelerazione dal 2005, in seguito all'introduzione di leggi di semplificazione dei controlli per i test sperimentali nel Paese. The Independent riferisce che un quarto di tutti i dati clinici forniti in Europaalle autorità di controllo sui farmaci proviene dagli esperimenti condotti proprio in Paesi come l’India, la Russia, l’America Latina e la Cina  (BRIC). Va detto come le vittime di questi esperimenti, prelevate in luoghi come i quartieri più poveri delle metropoli, vengano classificate solo con la sigla Sae: Serious Adverse Events (gravi eventi avversi). Del resto l'immissione in commercio di un nuovo farmaco richiederebbe circa 10-15 anni e varie fasi di sperimentazioni con un investimento di diversi miliardi di dollari. Stanziare i test in paesi poveri con un'ampia fetta di popolazione semianalfabeta vuol direrisparmiare fino al 60% il costo dell'investimento. Da pelle d'oca!
 Chi decide davvero del destino dei Marò Italiani? 
Forse le famiglie dei Marò che sono tornati in India obbedendo agli ordini dei loro superiori, non  è al ministro o all’ambasciatore o al capo del governo (a quello vecchio o a quello  appena incaricato) che dovrebbero rivolgersi per fare tutelare gli interessi e i diritti dei propri congiunti, ma ai capi delle industrie che fanno affari con l’India…..e forse loro risponderebbero. 
Traffico d'Armi, Bugie e Tangenti dietro tutto. Ecco 
cosa hanno in comune una delle maggiori industrie
metalmeccaniche europee e i due marò
Il Destino dei Marò e le novità emerse dal Processo Finmeccanica
  Il Mercato delle Guerre, non conosce crisi                                                       
Roma Che cosa hanno in comune i due marò italiani e una delle maggiori industrie metalmeccaniche europeeIn un mondo che soffre e si lamenta per una "cosiddetta" crisi economica indotta e globale che (fermo restando la truffa dell'Eurozona) forse non ha precedenti a memoria d’uomo, c’è un settore che pare essere sempre fiorente: quello degli armamenti. Eppure, nell’ultimo decennio del secolo scorso si era registrato un calo rilevante del settore. Calo che sarebbe stato causato, in massima parte, dalla riduzione delle forze della Nato dopo la fine della Guerra fredda. Ma le imprese del settore non si sono "arrese" (e del resto con tutte le armi di cui disponevano….). Così, grazie anche all’aiuto concesso volentieri da molti governanti, i Paesi più industrializzati di mezzo mondo (quelli in cui hanno sede le maggiori imprese produttrici di armi) hanno deciso o di fare guerra o di vendere i propri “prodotti” all’altra metà del mondoIn base  ai dati emersi da uno studio del SIPRI, tra i maggiori esportatori di armi nel periodo tra il 2008 e il 2012 ci sarebbero – guardacaso – gli Stati Uniti d’America che, casualmente, è il Paese che maggiormente, negli ultimi tre lustri, hapromosso guerre e “missioni di pace”, anche al di fuori dell’egida ONU e NATO; a seguire Russia, Germania, Francia, Cina, Regno Unito, Spagna e Italia. In realtà, le scelte di marketing adottate dai vari Paesi sono state diverse. Nella maggior parte dei casi, i Paesi hanno deciso di “scambiarsi”armi e armamenti e di andare a combattere  guerre senza motivo e senza ragione in giro per il mondo (fermo restando ovviamente il piano per la costituzione del NWO). Questo ad esempio sarebbe ciò che è avvenuto tra gli Stati Uniti e alcuni Paesi Europei dove a fronte di acquisti, da parte degli americani, di armamenti da Italia, Francia, Svezia, Germania, Polonia e Spagna, gli Stati Uniti hanno potuto vendere, ad esempio, molti dei loro aerei da guerra, seppure poco funzionali (tanto che la  Francia ha sospeso l’ordinativo), a molti Paesi europei, Italia inclusa. Ovviamente queste armi sono state poi utilizzate dai Paesi più industrializzati nelle “missioni di pace” in Paesi come Afghanistan, Iraq, Libia e molti altri. Missioni di pace che sono servite anche per conquistare spazi economici per le maggiori industrie dei Paesi invasori. 
  L'emblemnatico caso della Lockheed Martin e lo shopping arabo          
In altri casi invece, e qui sta la sorpresa, i Paesi maggiori produttori di armi hanno fatto di più. Hanno deciso di vendere direttamente le armi che producevano le industrie presenti sul loro territorio a Paesi in guerra tra loro o, in altri casi, a entrambe le fazioni di uno stesso Paese. Oppure, hanno deciso di utilizzare il canale dei Paesi medio-orientali per venderle a chiunque avesse i soldi per comprarle. Così la Lockheed Martin, con il consenso del Pentagono, ha venduto 20 aerei C-130J  e 5 tanker KC-130J all’Arabia Saudita per un  valore di 6,7 miliardi di dollari (24.61 miliardi di dhiran sauditi) completi di ricambi e supporto (che senso ha vendere le armi se non alleghi dei tecnici che insegnino ad usarle?). A questi si aggiungono 9 lanciatori e 48 missili antimissile balistici THAAD. Joe Parker, direttore per l'export del consorzio Eurofighter, ha confermato anche le trattative in corso per l'acquisto di 60 aerei Eurofighter Typhoon da parte degli Emirati Arabi Uniti. E nel 2011, la vendita di armi come il Pilatus agli Emirati Arabi, ha consentito alla Svizzera di raggiungere livelli eccellenti tanto che gli Emirati Arabi Uniti hanno scavalcato la Germania nell’acquisizione di armi elvetiche. Complessivamente l’Arabia Saudita, nel periodo 2008-2012, è stato il 10° maggior importatore di armi e armamenti al mondo e si è accaparrata il 3% degli armamenti in vendita in tutto il globo. Un  risultato niente male se si pensa che i suoi abitanti sono solo 7 milioni… Anche con il Qatar gli scambi di armi sembrano essere stati fiorenti: 12 lanciatori dello stesso tipo  venduto all’Arabia Saudita con 150 missili per un valore complessivo di 7,6 miliardi di dollari. 24 elicotteri da guerra AH-64D Apache Longbow e 700 missili Hellfire e molto altro.  Ma a cosa potrebbero mai servire tutte queste armi a Paesi così piccoli (il Qatar non arriva a due milioni di abitanti)? Ovviamente per il commercio. Ma come sostenuto e provato da Qui Europa in dozzine di articoli, anche per portare avanti il Piano di un Nuovo Ordine Mondiale.  Anche con il Qatar gli scambi di armi sembrano essere stati fiorenti: 12 lanciatori dello stesso tipo venduto all’Arabia Saudita con 150 missili per un valore complessivo di 7,6 miliardi di dollari. 24 elicotteri da guerra AH-64D Apache Longbow e 700 missili Hellfire e molto altro.
Per fomentare guerre, ogni scusa è buona!                                                        
Così mentre la Russia inviava '' avanzati missili da crociera antinave della tipologia Yakhont'' alla Siria (fonte New York Times), il Qatar a settembre scorso (dati Financial Times) ha deciso di sostenere i cosiddetti ribelli (mercenari) della provincia di Aleppo, contro il governo siriano, pagando loro uno “stipendio” mensile di 150 dollari. Inoltre, secondo l'International Peace Research Institute di Stoccolma (Sipri), il Qatar, tra aprile 2012 e marzo 2013, ha inviato in Turchia oltre 70 aerei militari cargo carichi di armi destinate ai  soliti "cosiddetti" ribelli. Sia il Qatar, con le armi comprate da Stati Uniti ed Europa, che gli stessi Stati Uniti d’America – come denunciato più volte dall'Osservatorio Nazionale "Qui Europa" – vendono armi ai "ribelli siriani". Lo ha confermato la stessa Casa Bianca sostenendo come il presidente Obama abbia preso questa decisione dopo che l’intelligence avrebbe raccolto le prove (per il vero come dimostrato in più sedi piuttosto fantasiose, per non dire assurde) sull’uso di armi chimiche (??) da parte del regime di Assad: Ben Rhodes, consulente di Obama per la sicurezza nazionale, ha confermato che secondo l’intelligence statunitense “il regime di Assad avrebbe usato diverse volte armi chimiche, in particolare il gas sarin, contro l’opposizione”. Dimenticando di dire – tuttavia – che, non solo a usare queste armi non convenzionali sarebbero stati i rivoltosi (mercenari) e non l’esercito, ma che, in un momento in cui sono state avviate trattative per porre fine agli scontri, fomentare le fazioni con simili affermazioni e armarle fino ai denti non aiuta certo il processo di pace. Sembra quasi di rivedere le scene viste in Iraq. E così mentre l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, rivelava che dall’inizio del conflitto siriano i morti sarebbero più di 93mila, di cui 6.500 bambini, gli Stati Uniti d’America e gli altri Paesi partners, sia direttamente che indirettamente fornendo armamenti a Paesi terzi che poi li rivendono a entrambe le fazioni in conflitto, aizzavano la guerra.
Il Triste Ruolo dell'Italia – Terzo produttore al Mondo di armi leggere   
E che ruolo ha l’Italia in tutto questo? L’Italia è il terzo esportatore mondiale di armi leggere. L’industria nazionale del settore, pur considerando le stime incomplete (vedremo in seguito perché) e la concorrenza russa e cinese, non perde posti nella classifica delle vendite e rimane uno dei maggiori produttori. Aiutata in questo dal fatto che la  vendita di pistole, fucili, munizioni ed esplosivi sono quasi sparite dalla Relazione sul commercio di armamenti che il Governo italiano è tenuto a presentare ogni anno al Parlamento. Le esportazioni di questi strumenti di morte sono classificate per la stragrande maggioranza sotto la voce "armi civili", vale a dire armi comuni da sparo, da caccia o da tiro sportivo. Così pure gli esplosivi, che sarebbero esportati ufficialmente "per uso industriale". Così non viene esercitato alcun controllo governativo su tali trasferimenti, né è monitorato l’utilizzo di questo materiale una volta che ha lasciato l’Italia! E chi ci sono tra i maggiori clienti e importatori di armi italiane? Ovvio, Paesi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. Il Medio Oriente, insieme al Sud-Est asiatico, sono le regioni che trainano la domanda internazionale di armamenti.
 Tra un'arma e una tangente… Rispunta la pista Marò                                   
I nomi di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sembrano essere ormai caduti nel dimenticatoio mediatico. Ma sebbene non se ne parli, pare che la vicenda si sia complicata, se possibile, ancora di più dopo che al processo per tangenti di Busto Arsizio all’ex presidente e amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi, è stata richiesto da parte della difesa di sentire come testimone Arackaparambil Kurien Antony, ministro della Difesa indiano da otto anni. Oltre ad aver seguito tutta la trafila della commessa dei 12 elicotteri di Agusta Westland (del gruppo Finmeccanica), il ministro, infatti, è considerato uno tra i maggiori oppositori alla liberazione dei nostri marò, colui il quale dopo il ritorno in India dei marò si vantò del risultato ottenuto "grazie alla linea dura" della Corte Suprema e del governo indiano. La stessa persona che, secondo i legali dell’ex amministatore delegato di Agusta (indagato con l’ex ad e presidente di Finmeccanica per corruzione internazionale e frode fiscale), conoscerebbe a fondo i dettagli della gara d’appalto per gli elicotteri AW 101 del 2006, da cui sarebbe scaturita poi la tangente da 50 milioni di EuroLa risposta è stata la decisione da parte del governo indiano di costituirsi parte civile nel processo insieme all’Agenzia delle entrate indiana e la richiesta di un risarcimento da circa 8 milioni di Euro per i danni d’immagine che la vicenda ha procurato. Non solo, ma in questo modo i legali del ministro hanno potuto aver accesso agli atti del processo (che sono ancora esistenti e non distrutti come hanno fatto in India con le prove del processo ai due marò) che contengono, tra l’altro, quanto trovato tra i documenti di Guido Ralph Haschke, l’intermediario svizzero che trattò la commessa per i 12 elicotteri. Incluse le prove a carico dell’ex capo dell’aviazione Shashindra Pal Tyagi e dei suoi cugini, JulieTyagi, Docsa Tyagi e Sandeep Tyagi, tutti coinvolti nell’affare di vendita illegale di armi e armamenti. La vicenda si è quindi allargata a macchia d’olio. La difesa degli accusati italiani infatti ha richiesto di aver accesso all’interrogatorio di Tyagi e dei cugini di fronte il Central Bureau of Investigations, il servizio segreto indiano. Non solo, ma ha citato come testimone  anche Ratan Tata, amministratore delegato del gruppo Tata, leader del mercato automobilistico mondiale.
  Il Destino incertissimo dei Marò                                                                           
Nel marzo del 2013, quando i due militari tornarono in Italia in congedo per Pasqua, anche noi scrivemmo degli articoli in cui denunciavamo che, con tutta probabilità, il motivo per cui i nostri marò erano ancora trattenuti in India nonostante le promesse (al vento) dei diplomatici e dei politici italiani, erano ben altre che quelle contenute nei loro capi d’accusa. Già allora riferimmo di interferenze tra le vicende dei marò e imprese coinvolte nella vendita di armamenti. E dopo che a un ministro indiano è stato chiesto di testimoniare al processo Finmeccanica (riconoscendosi colpevole) temo che la situazione per i nostri marò bloccati in India possa solo peggiorare.
C.Alessandro Mauceri (Copyright © 2013 Qui Europa)