venerdì 17 gennaio 2014

L'Aeronautica non dimentica


ECCIDIO DI KINDU
11 novembre 1961 - 11 novembre 2011 50anni fa la tragedia degli aviatori italiani

Paolo Farina

Fraternità ha nome questo tempio che gli italiani hanno dedicato
alla memoria dei 13 aviatori caduti in missione di pace
nell’eccidio di Kindu – Congo 1961
Qui per sempre tornati d’innanzi al chiaro cielo d’Italia con
eterna voce al mondo intero ammoniscono fraternità.
(dalla lapide commemorativa all’interno del Sacrario dei Caduti di Kindu, a Pisa)




Sono passati 50 anni dai tragici giorni di Kindu. Quello che resta non è, per l’Aeronautica Militare, solo qualche foto sbiadita, ma ciò che fece da cornice a quei drammatici eventi: la prima missione internazionale che la Forza Armata affrontava dopo il secondo conflitto mondiale.
Fu un impegno notevole. Sotto il mantello dell’ONU cominciavano a concretizzarsi quella serie di interventi di tipo umanitario, oggi genericamente identificati dal grande pubblico nelle attività di “peace-keeping”, necessari per il mantenimento di qualcosa di più di una semplice parvenza di coesistenza civile in un mondo, purtroppo, da sempre sconquassato da guerre e conflitti etnici.
In Congo, allora, la situazione era disperata; i nodi da districare troppi e tutti complessi, anche per un’organizzazione come quella delle Nazioni Unite, che scontava tra l’altro una certa inesperienza di fondo. Troppe poi le divergenze interne e molteplici gli opposti interessi, soprattutto economici, in gioco.
La possibilità che potesse verificarsi una tragedia nella tragedia era, vista col senno del poi, molto alta. Poteva succedere e accadde. La Forza Armata in quella operazione si era prodigata oltremodo, lavorando sempre al limite delle possibilità di uomini e mezzi, raccogliendo il plauso internazionale. Ma, in quel fatale 11 novembre 1961, pagò un prezzo salato.
La notizia del brutale massacro dei 13 aviatori a opera di una soldataglia eccitata e fuorviata da false informazioni colse il Paese di sorpresa. Era l’Italia del boom economico, un’Italia che aveva col lavoro e l’ingegno superato i tempi bui della guerra, aperto nuovi orizzonti ai propri figli e che, soprattutto, voleva dimenticare i lutti e le distruzioni di un quindicennio prima.
I drammatici resoconti, le cronache giornalistiche che non risparmiarono i dettagli più raccapriccianti
del massacro fecero inorridire e sussultare la Nazione, che si strinse idealmente alle famiglie dei caduti, in un’incredibile gara di solidarietà.
Ma come spesso accade da queste parti, quel che seguì furono l’oblio collettivo e le polemiche
sterili, parzialmente compensati da riconoscimenti tardivi. Per noi, ricordare Kindu è sempre motivo di commozione e orgoglio; farlo a 50 anni di distanza, con questo libro, è un’occasione per offrire alle generazioni presenti e future un utile strumento affinché la memoria possa rinnovarsi e mai perdersi.
Soprattutto, si spera che il riproporre la narrazione di questi avvenimenti, che solo apparentemente
possono sembrare appartenere a un tempo lontano, sia monito e sprone per tutta la comunità nazionale a riflettere sul fatto che la via per il mantenimento della pace non è solo lastricata di buone intenzioni, ma da atti e fatti concreti; e che su quel difficile cammino può, purtroppo, capitare di seppellire piccoli grandi eroi del quotidiano.
Così è stato a Kindu, così come lo è stato a Nassiriya. E allora si capisce come mezzo secolo sia stato, per l’Aeronautica Militare, solo un attimo trascorso sulla via del dovere. Quel che resta di Kindu
                                                        ECCIDIO DI KINDU:
L’intervento della 46a Aerobrigata agli inizi degli anni 60 nell’ex Congo Belga rappresenta una delle pagine più significative della storia dell’Aeronautica Militare. Quella rischiosa e avventurosa operazione, svolta in un Teatro così lontano e difficile, consacrò agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale le virtù degli aviatori italiani, ma anche le capacità professionali di questa stupenda unità di trasporto aereo, risorta
con nuovo vigore proprio sullo storico aeroporto di Pisa dopo le vicende belliche della Seconda Guerra Mondiale. Equipaggiata a partire dal maggio del 1953 con il bimotore da trasporto medio
ognitempo Fairchild C-119, meglio noto come “Vagone volante”, la 46a Aerobrigata già alla fine degli
anni 50 poteva vantare un brillante avvio di collaborazione con le Nazioni Unite, avendo assicurato
nel periodo novembre 1956 - marzo 1957 un massiccio ponte aereo sulla rotta Napoli - Abu Suweir,
per il supporto logistico alla forza d’interposizione UNEF (United Nations Emergency Forces)
schierata sul Canale di Suez. Successivamente, dal settembre 1957 all’aprile 1958, i suoi velivoli erano
nuovamente intervenuti nell’area, assicurando l’avvicendamento tra gli aeroporti di Beirut ed El Arish,
dei caschi blu scandinavi impegnati nella striscia di Gaza. Una collaborazione, sviluppatasi nell’arco
di tre anni, che aveva dato modo ai dirigenti ONU di apprezzare le capacità operative raggiunte dal
reparto italiano, tanto da inserirlo nel novero delle forze internazionali utilizzabili nelle aree di crisi.
La successiva guerra civile congolese, e la minaccia che rappresentò per la pace nel continente africano
e nel mondo, richiese un massiccio intervento delle Nazioni Unite. Ma, prima ancora che quest’ultimo
si concretizzasse, toccò ai singoli Paesi prestare soccorso alle proprie comunità nazionali residenti in Congo. Era, infatti, l’estate del 1960
                                                                L’ “Operazione Congo”
quando i primi due C-119 della 46a Aerobrigata furono chiamati a intervenire nel lontano Paese africano
per portare in salvo i nostri connazionali. La dichiarazione d’indipendenza del 30 giugno, dopo
quasi 80 anni di dominazione belga, e i conseguenti contrasti all’interno della nuova classe politica
avevano fatto sprofondare lo stato congolese nel caos più completo: disordini sanguinosi erano
esplosi un po’ ovunque, mentre si moltiplicavano gli ammutinamenti di interi reparti della Force Publique
sotto le spinte secessionistiche di alcune province. Sullo sfondo, il minaccioso contrapporsi
dei due blocchi mondiali per lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie del Paese.
Una situazione esplosiva che, di colpo, aveva suscitato nell’opinione pubblica mondiale l’interesse,
ma anche l’allarme e l’orrore, per quello che lì stava accadendo. Fu così che, all’alba dell’11 luglio,
due C-119 – al comando rispettivamente del magg. pil. Commini (2° Gruppo) e del magg. pil.
D’Amato (98° Gruppo) – decollarono da Pisa con destinazione Elisabethville, la capitale della ricchissima
regione del Katanga, dove risiedeva una grossa comunità di oltre 5.000 connazionali. I due
“Vagoni volanti” atterrarono a Elisabethville il 13 luglio dopo un lungo viaggio di 8.000 km (con
scalo a Il Cairo, Khartoum ed Entebbe) disturbato nella zona equatoriale da condizioni meteorologiche
avverse. I civili italiani, nel frattempo, avevano trovato riparo insieme ad altri europei nella vicina
Rhodesia dalla quale fecero ritorno dopo l’intervento di due compagnie di paracadutisti belgi di
stanza a Kamina, lì inviate per sedare i disordini.
Purtroppo già in questa prima fase era caduto il primo italiano, il giovane viceconsole Tito Spoglia,
falciato da una raffica di mitra mentre, nella notte del 10 luglio, stava cercando di portare in salvo alcune
famiglie di connazionali. I due C-119 vennero impiegati per l’evacuazione dei cittadini europei da altri centri interessati dalla rivolta, come Luluabourg e Kolwezi, località quest’ultima dove, per prelevare un gruppo di profughi da trasferire sul più sicuro aeroporto di N’Dola in Rhodesia, uno dei due velivoli atterrava in
ECCIDIO DI KINDU: 50 anni fa la tragedia degli aviatori italiani mezzo a un nubifragio. In cinque giorni gli equipaggi della 46a Aerobrigata, affrontando notevoli difficoltà, riuscirono a portare in salvo ben 302 profughi di nazionalità belga, canadese, congolese, inglese e italiana. Questo primo rischioso intervento
terminò il 17 luglio, quando i due velivoli poterono ripartire per l’Italia, via Salisbury-Nairobi, con a
bordo 60 profughi e la salma del viceconsole Spoglia. Nel frattempo, un terzo C-119 era partito da
Pisa il 14 luglio con un carico di 2.000 libbre di viveri donati dalla Pontificia Commissione di Assistenza,
raggiungendo questa volta Brazzaville, nel Congo Francese, dove avevano riparato gran parte
dei profughi europei dopo la sommossa esplosa nella capitale Léopoldville.
A causa dell’indisponibilità di alberghi, l’equipaggio dovette arrangiarsi pernottando all’interno
del velivolo ed eseguendo con mezzi di fortuna la prevista ispezione delle 25 ore di volo. Il viaggio
di rientro iniziò il 20 luglio, dopo aver imbarcato 19 profughi di nazionalità italiana, belga e greca
diretti a Ciampino. Il 30 luglio fu la volta di altri tre C-119, ciascuno con un carico di quattro tonnellate
di farina per le popolazioni congolesi. Le crescenti difficoltà da parte egiziana, nel concedere lo
scalo tecnico a Il Cairo, avevano indotto l’ufficio operazioni dell’Aerobrigata a predisporre una rotta
alternativa lungo la costa occidentale del continente africano: Pisa-Algeri-Nouasser-Atar-Dakar-
Roberts Field-Accra-Léopoldville. I problemi incontrati furono tuttavia superiori rispetto alla precedente
rotta via Egitto-Sudan-Uganda, sia per la maggiore distanza da percorrere, per di più in presenza
di condizioni meteorologiche estremamente variabili, che per le carenze logistiche presso alcuni
degli scali toccati. I tre velivoli, dopo aver assicurato i collegamenti con gli aeroporti di Kamina, Salisbury e N’Dola, fecero ritorno a Ciampino a metà agosto, trasportando altri 95 profughi. Con questa missione terminò la prima fase dell’intervento dell’Aeronautica Militare in Congo, ossia quella a carattere episodico,
poiché il precipitare della crisi avrebbe portato, di lì a poco, le Nazioni Unite a chiedere al nostro governo il rischieramento in loco di una componente da trasporto aereo e di un ospedale da campo della Croce Rossa Italiana. Ciononostante, il consuntivo di questa prima fase era particolarmente eloquente circa l’impegno profuso dagli uomini della 46a Aerobrigata: in 516 ore di volo avevano evacuato 429 profughi e trasportato
57.350 libbre di materiale di soccorso.
Il 12 luglio 1960, intanto, il presidente della neo Repubblica del Congo Joseph Kasa-Vubu e il primo
ministro Patrice Lumumba avevano richiesto ufficialmente al segretario generale delle Nazioni
Unite un intervento militare per scacciare definitivamente l’ex dominatore belga e reintegrare nello
Stato le province secessioniste, prima fra tutte quella del Katanga infuocata dal leader filo belga
Moise Ciombe. Da parte sua il Palazzo di Vetro aveva precisato, con due successive risoluzioni, il
carattere di non ingerenza nei fatti interni congolesi del suo possibile intervento, che era quindi finalizzato
al ristabilimento dell’ordine pubblico attraverso un’azione di polizia e l’assistenza tecnica
alle forze armate congolesi. Nasceva così l’ONUC (ONU-Congo) che, di lì a pochi giorni, avrebbe inviato
a Léopoldville il primo contingente di caschi blu, messi a disposizione da Tunisia e Ghana, seguiti
da quelli provenienti da Etiopia, Marocco, Svezia, Irlanda, Canada, Guinea, Indonesia, Repubblica
Araba Unita, Malesia e Repubblica del Mali. La situazione era quantomai delicata poiché,
con la richiesta di aiuto militare rivolta da Lumumba anche al segretario generale del partito comunista
dell’Unione Sovietica Nikita Khrushchev e il predominare di grossi interessi nello sfruttamento
del sottosuolo del Katanga, il Congo poteva trasformarsi in una nuova Corea.
Non a caso quelle terre erano state definite uno “scandalo geologico” non solo per la spaventosa
ricchezza di cobalto, diamanti, rame, stagno e zinco, ma anche per la consistente presenza di uranio,
argento e oro.
Per supportare all’interno del Teatro congolese le forze terrestri schierate, l’ONUC aveva approntato
fino a quel momento una modesta componente aerea, ricorrendo a velivoli ed elicotteri da collegamento
affidati a equipaggi misti indiani, argentini e sul campo di Albertville nei pressi del Lago Tanganika.
brasiliani, nonché a velivoli civili costosamente noleggiati. Mancava un reparto uninazionale per il
trasporto aereo, dotato soprattutto di velivoli di capacità media in grado di rifornire le varie guarnigioni
sparse nel vasto Paese, spesso in località irraggiungibili via terra.
In quest’ottica la richiesta rivolta dall’ONU all’Italia, come ad altri Paesi, per una collaborazione
continuativa e impegnativa nel Congo trovava la piena disponibilità del nostro governo, che dava subito
incarico all’Aeronautica Militare di mettere a disposizione del comando ONUC un contingente
di uomini e mezzi della 46a Aerobrigata. D’altro canto il velivolo C-119, con le sue doti di
robustezza e affidabilità, rispondeva in larga parte ai requisiti di missione richiesti; del resto era stato
impiegato con successo dalla forza aerea belga proprio in quel particolare Teatro operativo.
Il 22 agosto 1960, con la partenza da Pisa dei primi quattro velivoli (due per gruppo) alla volta di
Léopoldville, iniziò l’avventura in Congo, che si sarebbe protratta per circa due anni assorbendo gran
parte delle risorse e delle energie dell’Aerobrigata. All’arrivo nella capitale congolese, avvenuto il
giorno 28, gli equipaggi trovarono una situazione di estrema tensione essendo stato proclamato, dal
9 agosto, lo stato d’emergenza a seguito dei disordini scoppiati all’università di Lovanium.
Come se non bastasse vi erano evidenti contrasti tra l’ONUC e il primo ministro Lumumba, di cui
era imminente ormai la destituzione su ordine del presidente Kasa-Vubu. I nostri velivoli si dedicarono
da subito al supporto logistico delle guarnigioni ONUC dislocate sugli aeroporti delle sei province
congolesi, un’attività particolarmente impegnativa date le dimensioni del Paese africano, grande sette volte e mezzo l’Italia.
Si trattava, innanzitutto, di coprire lunghe distanze con l’ausilio di pochissime radioassistenze e in presenza di elevate temperature, nonché di ricorrenti perturbazioni atmosferiche tipiche delle zone equatoriali. Tutto questo senza poter disporre di bollettini meteorologici e di carte aeronautiche aggiornate, a causa delle caratteristiche topografiche della regione mutevoli con l’andamento climatico stagionale.
Gli aeroporti utilizzati erano, poi, in larga parte sprovvisti delle elementari infrastrutture logistiche e
di assistenza al volo; atterrarvi costituiva talvolta un vero e proprio azzardo poiché, a causa della mancanza
di un efficiente servizio informazioni da parte dell’ONUC, gli equipaggi non potevano sapere
preventivamente se fossero presidiati in quel momento dai caschi blu o, viceversa, circondati od
occupati dai ribelli. Intanto il 1o settembre, con l’arrivo da Pisa di altri sei velivoli, fu costituita sull’aeroporto
di N’Djili di Léopoldville la “Sezione Congo” della 46a Aerobrigata al comando del magg. pil. Enzo Orsucci.
Posta sotto il controllo operativo del Comando Forze Aeree ONUC, la Sezione dipendeva disciplinarmente
e per le esigenze tecnico-amministrative dal comando di Aerobrigata. Dopo un primo periodo in cui il personale venne alloggiato in un albergo nella zona di Pana-Otraco, fu ritenuta più idonea la sistemazione presso alcune villette alla periferia di Léopoldville, in località Limite, abbandonate dai belgi e requisite successivamente dall’ONUC. Benché confortevoli e situate a metà strada tra l’aeroporto e la capitale, queste risultavano alquanto carenti sotto il profilo della sicurezza, specie di notte, per il pericolo di furti e di
aggressioni da parte dei sempre più numerosi profughi provenienti dalle zone interne del Paese.
Alla protezione degli alloggi si sarebbe provveduto, per un certo periodo, anche con l’impiego di
una dozzina di avieri VAM (Vigilanza A.M.) inviati dalla 46a Aerobrigata. Ad alimentare il clima di insicurezza vi era poi il divieto, inizialmente anche sui velivoli, di portare le armi per la difesa personale,
allo scopo di non creare complicazioni con i congolesi. Inoltre, mancando una mensa ONUC,
il personale specialista dovettero arrangiarsi presso ciascuna villetta allestendo una cucina di fortuna
con cuochi improvvisati, in taluni casi, riconfermati sulla base delle capacità culinarie dimostrate.
L’apporto della Sezione italiana si fece subito sentire, tanto che le ore di volo effettuate nel periodo
luglio-settembre 1960 corrispondevano già a più dei due terzi dell’attività complessiva della flotta
ECCIDIO DI KINDU: 50 anni fa la tragedia degli aviatori italiani ONUC. Il 1o ottobre, completato l’invio di personale e di velivoli dall’Italia, la Sezione fu elevata a “Distaccamento”, mantenendo la sua sede sull’aeroporto di N’Djili. L’organico era composto da un ufficiale superiore comandante, otto ufficiali capiequipaggio, otto tra ufficiali e sottufficiali con la qualifica di copilota, 32 sott.li specialisti di volo e
di prima linea, un ufficiale GArat e 36 specialisti di seconda linea.
Altri 20 specialisti, diretti da un ufficiale tecnico, furono distaccati a Kamina, la grande base realizzata
dai belgi a 1.200 km da Léopoldville, per assicurare le ispezioni delle 150 ore di volo ai velivoli
C-119 sfruttando le attrezzature tecnico-logistiche esistenti in loco. In tal modo si potevano risparmiare
50 preziose ore di volo, esattamente quante ne occorrevano per il trasferimento da Léopoldville
al GEV (Gruppo Efficienza Velivoli) di Pisa e viceversa, mettendo così a disposizione dell’ONUC sei
velivoli per un totale di 300 ore di volo operative mensili. Completavano l’organico del Distaccamento
un ufficiale medico, un aiutante di sanità, due assistenti contabili e due avieri VAM. Ormai i “Vagoni volanti” italiani collegavano Léopoldville con ogni angolo del Paese.
Gli aeroporti principali utilizzati erano Gemena, Coquilhatville, Stanleyville e Goma a nord, Kindu,
Matadi, Luluabourg e Albertville al centro, Kamina ed Elisabethville a sud; più tutta una serie di strisce
in terra battuta ritagliate nella foresta, dove si doveva ugualmente atterrare per rifornire le guarnigioni
ONUC.
La prepianificazione delle missioni da parte dell’ONUC lasciava tuttavia a desiderare, in quanto
nell’assegnazione dei carichi da trasportare non teneva conto delle temperature al suolo che, unitamente
alla quota di taluni aeroporti, potevano mettere in serio pericolo lo svolgimento delle operazioni,
specie nel caso di avaria a uno dei propulsori. La questione fu subito oggetto di contrasto tra
gli organi tecnici italiani e il comando forze aeree ONUC ma, a causa del prevalere di pressanti esigenze
operative, fu risolta solo parzialmente. Di fronte a simili carenze, non rimase che fare affidamento
sulla preparazione degli equipaggi e sulle ottime caratteristiche di affidabilità del “Vagone volante”,
piuttosto che sulle tabelle di prestazione contenute nei manuali.
I carichi erano quantomai vari: caschi blu di ogni nazionalità, i profughi delle varie etnie, i viveri, i
medicinali, gli equipaggiamenti e gli automezzi leggeri, blindati e pesanti. Quest’ultimi, principalmente autocarri Bedford, richiedevano vere e proprie acrobazie per essere imbarcati, date le loro dimensioni
d’ingombro, ma sgonfiando le ruote e ammaccando la torretta con qualche martellata i nostri specialisti riuscivano ugualmente nell’impresa di farli entrare nella fusoliera del “Vagone volante”.
Le difficoltà climatiche, caratterizzate da un caldo umido opprimente, si facevano sentire.
L’8 settembre c’era stata purtroppo la prima vittima della 46a Aerobrigata: il m.llo mot. Mario
Lamponi, stroncato da un infarto a Léopoldville.
Non a caso gli avvicendamenti, previsti inizialmente ogni sei mesi, erano stati subito intensificati
ogni due, avvalendosi dei quadrimotori Canadair Northstar messi a disposizione dall’aeronautica canadese
e, quando disponibili, degli stessi C-119 in partenza da e per l’Italia. Le condizioni di vita non
erano migliori per la Sezione Tecnica distaccata a Kamina, anzi il personale si era venuto a trovare
praticamente isolato dal resto del mondo civile.
La cittadina, distante 10 km dall’aeroporto, risultava pressoché irraggiungibile a causa della guerra
civile che rendeva insicura l’intera area. I belgi poi, ottemperando alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza
ONU, avevano smobilitato la base portandosi via le attrezzature per la manutenzione.
Nel frattempo il ruolo dell’ONUC stava diventando sempre più difficile e delicato. Dopo il colpo
di stato del ten. col. Joseph Désiré Mobutu e il governo provvisorio dei Commissari, la lotta fra i vari
gruppi politico-militari che si contendevano il potere era divenuta più aspra, tanto che già tre province
avevano dichiarato la loro indipendenza dal governo centrale. La grossa spina nel fianco era rappresentata comunque dal ricco Katanga dove Ciombe, sostenuto dalle multinazionali, faceva ormai largo uso di
truppe mercenarie europee. In questo complesso scenario i velivoli della 46a Aerobrigata totalizzarono
ben 1.500 ore di volo in soli quattro mesi (da settembre a dicembre 1960), operando in condizioni
d’impiego spesso estreme. Come atto di riconoscimento dell’importante ruolo assegnatoci, l’ONUC alla fine dell’anno affidava per la prima volta il comando della principale base aerea di Léopoldville a un ufficiale superiore dell’Aeronautica Militare, il col. pil. Luciano Nimis. Nello stesso periodo fu deciso di smobilitare il distaccamento tecnico di Kamina, non più in grado di operare con i mezzi di fortuna rimasti, cosicché le ispezioni delle 150 ore dovettero ritornare sulla base di Pisa o presso la SIAI (Società Italiana Aeroplani Idrovolanti) di Vergiate, con un aggravio di 50 ore di volo per i trasferimenti da e per l’Italia.
In poco più di 90 giorni i 20 specialisti erano riusciti, tuttavia, a effettuare otto ispezioni e a sostituire
tre motori, due eliche nonché svariati altri particolari, recuperando taluni materiali dalle carcasse
di tre C-119 abbandonati dai belgi. Come contropartita al maggiore onere di ore di volo, il comando
ONUC aderì alla richiesta di cessione in uso al nostro Distaccamento dei cinque C-119 ONU precedentemente assegnati al contingente indiano.
Le loro condizioni tecniche erano però tali da richiederne l’invio, a partire dall’inizio del nuovo anno, in Italia per le necessarie revisioni. Sempre per agevolare l’Aerobrigata, fu deciso di impiegare
nei collegamenti, a fianco dei Northstar canadesi, anche i DC-6 del Reparto Volo Stato Maggiore.
Altri tentativi per risparmiare ore di volo riguardarono la pianificazione di una rotta diretta per
Léopoldville, via Tripoli-Kano, anziché via Il Cairo-Khartoum-Entebbe, avvalendosi dei serbatoi supplementari installabili nella fusoliera del C-119.
Tuttavia, il rischio di incontrare avverse condizioni meteorologiche era notevole, come del resto
dimostrarono alcuni trasferimenti effettuati, per cui il ricorso alla “diretta” rimase del tutto episodico.
Nel frattempo, le richieste d’intervento dei nostri C-119 nel teatro congolese erano in continuo aumento.
A dicembre i velivoli italiani, oltre ad assicurare i normali collegamenti, furono chiamati a portare soccorso ai 100mila profughi di Bakwanga, lì ammassatisi in precarie condizioni di vita dopo la riconquista del Kasai da parte dell’Armata Nazionale Congolese.
                                                               1961: un anno tragico
Le insidie di quel difficile Teatro operativo non tardarono, purtroppo, a manifestarsi in tutta la loro
drammaticità. Il 2 febbraio 1961 si verificò, infatti, il primo incidente di volo: il “Lyra 22”, in volo di
trasferimento da Coquilhatville a Léopoldville al comando del cap. pil. Giuseppe Farinelli, fu costretto
a effettuare un atterraggio d’emergenza sul campo di fortuna di Kwamouth, a causa di un “supergiri”
all’elica sinistra. L’emergenza si concluse fortunatamente con il solo danneggiamento del velivolo,
sprofondato nel fango, il cui recupero si dimostrò impossibile. Dopo una notte trascorsa a bordo, l’indomani l’equipaggio potè essere recuperato dai soccorritori. La difficoltà di rimanere in aria con un solo motore, in presenza di così elevate temperature esterne, ebbe conseguenze ancor più drammatiche il 15 febbraio quando a Luluabourg, dove “Lyra 15” era atterrato due giorni prima a seguito di un’avaria al regolatore di giri dell’elica sinistra, riscontrò lo stesso problema nonostante la sostituzione del regolatore e la relativa
prova in pista. Nel tentativo di riatterrare con l’elica in bandiera, il velivolo non riusciva a completare il
circuito di rientro e scivolava d’ala fracassandosi nella boscaglia. Nell’urto trovarono la morte i due
piloti (cap. Sergio Celli e ten. Dario Giorgi) e il montatore (1o av. Italo Quadrini); gli altri componenti
dell’equipaggio (serg. magg. marconista Pasquale Romano, serg. magg. motorista Paolo Granucci
e serg. motorista Antonio Destriere) e i due passeggeri pakistani riportarono ferite più o meno
gravi. Unica eccezione, l’elettromeccanico di bordo (serg. magg. Antonio Borgia) – tra l’altro reduce
dall’incidente di due settimane prima a Kwamouth – ne usciva illeso.
Si trattò, per la 46a Aerobrigata, del primo incidente grave avvenuto con il C-119 dalla sua consegna
nel 1953, ma anche dei primi caduti nell’avventurosa campagna in Congo. Purtroppo, non sarebbero stati i soli. Due giorni prima era giunta la notizia dell’assassinio di Lumumba a opera dei sicari di Ciombe e la tensione stava salendo un po’ ovunque. I Paesi africani, in aperta polemica con il Segretario delle Nazioni Unite, ritenuto impotente dinanzi all’espandersi della crisi congolese, avevano minacciato perfino di ritirare i propri contingenti dall’ONUC.
Da Stanleyville, dove risiedeva il governo di Gizenga, e dalla provincia del Kivu, dove Kashamura
era riuscito a impossessarsi del potere, le forze lumunbiste al comando del gen. Lundula erano infatti
dilagate, raggiungendo Manono, conquistando Luluabourg nel Kasai e penetrando nella provincia
stessa della capitale attorno a Kikwit. Al governo di Léopoldville, ritornato nelle mani di Kasa-Vubu
dopo il regime temporaneo dei Commissari, non restava dunque che affidarsi all’ONUC per evitare
la disfatta. La forza schierata in Congo dalle Nazioni Unite era costituita da 20mila caschi blu, appartenenti
a 29 nazioni, anche se l’appoggio al suo segretario non era unanime: dopo la morte di Lumumba
l’Unione Sovietica lo avversava aspramente, la Francia era addirittura contraria a tutta l’organizzazione ONU e il Belgio gli era furiosamente ostile. Solo il governo degli Stati Uniti lo difendeva anche se non mancava l’opposizione all’interno dello stesso partito repubblicano. Bisognava cercare di risolvere al più presto la
crisi congolese poiché, oltre a minacciare la pace in Africa, era divenuta per l’ONU motivo di gravi
difficoltà politiche e finanziarie. Basti pensare che circa la metà delle nazioni aderenti all’organizzazione
non contribuiva alle spese per le operazioni militari in Congo, spese che l’assemblea generale –con la risoluzione del 21 aprile 1961 – aveva portato a tre milioni di dollari al mese. In questo delicatissimo
Teatro la 46a Aerobrigata fece del suo meglio, affrontando difficoltà sul piano operativo e
tecnico-logistico senza precedenti.
Solo per le ispezioni tecniche, ogni mese tre velivoli erano costantemente impegnati in voli di trasferimento
da e per il Congo, senza contare le ripercussioni in termini di aeroplani e ore di volo
sulle altre attività del reparto, sia in ambito nazionale che NATO. Il massimo sforzo fu richiesto dall’ONUC
a partire dall’agosto 1961, con l’avvio dell’operazione “Rumpunch”, per tentare con la forza
di sedare la secessione katanghese mediante l’arresto, il disarmo e l’espulsione dei mercenari stranieri.
Malgrado la rapidità con cui le truppe indiane e svedesi occuparono, all’alba del 28 agosto,
l’aeroporto di Elisabethville e gli altri punti sensibili della città, i risultati dell’operazione furono
modesti. Soltanto 273 mercenari sarebbero partiti entro il termine ultimo concesso del 9 settembre,
per poi rientrare magari da un altro Stato. 
Non solo, ma l’escalation di tensione a Elisabethville scatenò il panico fra i rifugiati baluba, popolo
di etnia Bantu, che in 35mila presero d’assalto, nell’arco di 15 giorni, gli accampamenti dei
caschi blu per ottenere protezione. Allo scopo di fronteggiare questa difficilissima situazione logistica,
fu chiesto ai C-119 italiani di trasportare a Elisabethville viveri e medicinali e di concorrere all’evacuazione
dei profughi verso zone più sicure.
Il 13 settembre, dopo inutili trattative per l’espulsione dei mercenari ancora presenti, i caschi blu
tornarono nuovamente in azione con l’operazione “Morthor” destinata, secondo i piani segreti del
rappresentante ONUC in Katanga Conor Cruise O’Brien, a consentire l’arresto del presidente
Ciombe e dei principali dirigenti katanghesi.
L’operazione, della quale non era stato informato preventivamente nemmeno il segretario generale
Dag Hammarskjold, fallì miseramente, poiché la maggior parte degli esponenti politici aveva preso
il largo e i caschi blu avevano incontrato una violenta resistenza da parte della locale gendarmeria,
appoggiata per la prima volta dall’aria da un Fouga Magister dell’aviazione “fantasma” del Katanga.
Gli F-86E etiopici richiesti per la copertura aerea all’operazione “Morthor” erano rimasti bloccati all’aeroporto di Entebbe, a causa di complicazioni amministrative sollevate dalle autorità locali, con
il risultato di esporre i reparti ONUC rimasti accerchiati a Kamina e Jadotville a continui mitragliamenti.
Di queste incursioni fecero le spese, il 15 settembre, anche tre C-119 del nostro Distaccamento
in sosta sull’aeroporto di Kamina. Il jet sganciò alcune bombe, le cui schegge danneggiarono
uno dei velivoli, senza comprometterne il successivo recupero in condizioni di volo, e ferirono, per fortuna non gravemente, il m.llo mont. Michele Di Trani. Da questo momento, in attesa che si rendesse
disponibile la copertura aerea dei caccia etiopici e svedesi, Elisabethville dovette essere rifornita
di notte dai nostri C-119, gli unici in grado di effettuare queste rischiose missioni malgrado le
difficoltà derivanti dagli improvvisi banchi di nebbia provocati dalla forte umidità. Tutti gli altri voli
diurni di rifornimento alle basi ONUC dislocate in Katanga furono conseguentemente sospesi.
Dag Hammarskjold tentò di salvare il salvabile, proponendo a Ciombe un armistizio e un incontro
a N’Dola in Rhodesia per trovare una soluzione al conflitto. Partito da Léopoldville nella serata del 17
settembre a bordo di un DC-6 svedese, alle 00.10 del giorno successivo precipitò a circa nove miglia
dall’aeroporto di N’Dola. L’unico superstite, nelle sue ultime 48 ore di vita, riferì di alcune esplosioni
consequenziali avvertite a bordo. La commissione d’inchiesta ONU dichiarò successivamente
che non potevano essere esclusi né il sabotaggio, né l’attacco esterno di un altro aereo o da terra, ma che c’erano comunque troppe poche prove per determinare l’esatta causa dell’incidente, anche per il censurabile ritardo nelle operazioni di ricerca da parte dei rhodesiani.
Finì così l’era del norvegese Dag Hammarskjold nella difficile guida delle Nazioni Unite e con essa
il sogno di edificare quella “terza forza” fra i due blocchi per prevenire le crisi politiche ed evitare
confronti diretti tra le due superpotenze.
Al suo posto venne eletto, nel novembre successivo, il birmano U’Thant, riconoscendo di fatto la
crescente influenza dei Paesi del Terzo Mondo in seno all’ONU. La morte del segretario generale
delle Nazioni Unite, nel settembre 1961, fu l’ennesimo inquietante segnale dei pericolosi fermenti
che stavano attraversando il Congo diviso, più che  dalle barriere etniche, dalle spinte secessionistiche
alimentate da grandi interessi internazionali per lo sfruttamento delle ingenti risorse del Paese.
In questo difficile scenario, la mattina dell’11 nokindu vembre 1961 due C-119 del Distaccamento, ai comandi rispettivamente del magg. Amedeo Parmeggiani e del cap. Giorgio Gonelli, decollarono da
Kamina con un carico di rifornimenti per la guarnigione malese di stanza sull’aeroporto di Kindu.
Mentre sostavano nella mensa ONUC, a metà strada tra la cittadina e l’aeroporto, i nostri aviatori
furono assaliti da un gruppo di ribelli dell’Armata Nazionale Congolese con l’accusa di essere mercenari
belgi e trucidati poco dopo dinanzi alla prigione di Kindu. L’orrore e lo sdegno furono unanimi
in tutto il mondo, ma non fu il solo lutto che colpì la 46a Aerobrigata. 
Pochi giorno dopo, infatti, un’altra tragedia si consumava nel cielo del Congo. Il 17 novembre il
C-119 “Lyra 10”, in volo dall’Italia per il Paese africano con a bordo la posta, il vettovagliamento e i
pacchi inviati dalle famiglie – questa volta un po’ più ricchi del solito per l’approssimarsi delle festività
natalizie – era costretto a effettuare un atterraggio d’emergenza su una radura nei pressi del
Lago Tanganika a causa di un’avaria al motore destro.
Il contatto avveniva regolarmente, ma durante la corsa al suolo il velivolo impattava violentemente
contro un grosso tronco d’albero nascosto dall’erba. Nell’urto trovavano la morte il cap. pil.
Elio Nisi, il m.llo pil. Giovanni De Risi, il m.llo mot. Tommaso Fondi e il m.llo marc. Giuseppe Saglimbeni;
gli altri componenti dell’equipaggio (serg. pil. Mario Ferrari, m.llo EMB Salvatore Giammona,
serg. mont. Luigi Fredducci) e i tre passeggeri stranieri dell’ONUC riportavano ferite varie. Venivano
ritrovati dopo due giorni presso una località della Tanzania, sede di una missione religiosa, che avevano
raggiunto con una rischiosa ed estenuante marcia attraverso la foresta. In soli sei giorni la 46a
Aerobrigata aveva pagato un prezzo altissimo, perdendo ben tre equipaggi di volo e un velivolo.
ECCIDIO DI KINDU: 50 anni fa la tragedia degli aviatori italiani Ma la missione in Congo proseguì. Tra la fine di novembre e la prima metà di dicembre del 1961 l’ONUC, con l’assenso degli Stati Uniti, sferrò una
nuova offensiva contro la gendarmeria katanghese con l’appoggio, finalmente, dei caccia F-86E, J-29
e Canberra messi a disposizione, rispettivamente da Etiopia, Svezia e India. Questa volta tutti gli obiettivi furono raggiunti, costringendo Ciombe a negoziare con il governo centrale, ma la crisi del Katanga non era ancora risolta.
Insostituibile, anche in questo frangente, si rivelò il cordone ombelicale tra Léopoldville ed Elisabethville
mantenuto dai C-119 italiani con ogni condizione di tempo e con ogni tipo di carico a bordo. Motivi politici avevano tuttavia sconsigliato, almeno per il momento, il ritiro del contingente italiano, anche se lo sforzo per l’Aerobrigata sarebbe divenuto insostenibile qualora l’operazione fosse continuata a tempo indeterminato.
L’impegno in Congo assorbiva, infatti, circa un terzo dell’attività di volo che il reparto era in grado
di produrre con le risorse disponibili, costringendo il Servizio Tecnico a un super lavoro, anche in relazione
alla maggiore usura che il particolare ambiente naturale e operativo determinava sul materiale.
Il personale poi risultava provato: l’affaticamento fisico (molti avevano già fatto tre turni) e le preoccupazioni, derivanti dal susseguirsi di eventi luttuosi, avevano provocato un diffuso stato di tensione, per cui non si poteva continuare per lungo tempo a fare affidamento sul solo senso di disciplina e di responsabilità.
Tutte queste considerazioni erano state puntualmente rappresentate dai comandanti di Distaccamento
e dell’Aerobrigata nelle loro periodiche relazioni, ma toccava ora ai politici mettere la parola fine. Un aiuto in questa direzione venne, nei primi mesi del 1962, dall’applicazione rigorosa delle tabelle di prestazione per contenere i rischi connessi all’attività di volo in quel particolare Teatro.
La conseguente riduzione del carico a bordo rese talune missioni poco paganti per l’ONUC, abituato
a ricevere dagli aviatori italiani sempre molto di più rispetto a quanto potessero oggettivamente dare.
Malgrado ciò, i C-119 italiani si rivelarono ancora preziosi nel maggio del 1962 per evacuare i
profughi baluba con ripetuti voli tra Kamina e Luluabourg.
Concordate le modalità dell’avvicendamento, in modo da non compromettere le operazioni aeree dell’ONUC, nel giugno del 1962 il Distaccamento poté essere rimpatriato. Gli ultimi tre C-119 atterrarono a Pisa il giorno 19, ricevuti e scortati in volo dagli F-86K del 23o Gruppo.
Il bilancio di questa estenuante operazione sicommenta da solo: in 23 mesi i nostri C-119 avevano
effettuato 2.177 sortite per un totale di 9.165 ore di volo, trasportando 9.328.201 libbre di materiale
e 8.100 passeggeri; tutto questo a prezzo di 21 vite umane, sei feriti e tre velivoli distrutti.
Unanimi furono le attestazioni di stima e di gratitudine da parte delle Nazioni Unite, prima fra tutte quella del segretario U’Thant, che in una lettera di ringraziamento al Rappresentante Permanente dell’Italia presso l’ONU, sottolineava: «[…] la profonda gratitudine delle Nazioni Unite per il servizio eccezionale reso dall’Aeronautica italiana in circostanze particolarmente difficili con alto senso del dovere e della solidarietà internazionale».
Passarono solo pochi mesi e, alla fine del 1962, il piano militare elaborato dagli Stati Uniti per la riorganizzazione dell’Armata Nazionale Congolese e delle gendarmerie provinciali indicò già alcune
nazioni, tra cui l’Italia, a cui affidare il compito specifico di addestrare e assistere la nascente aviazione
congolese.
Nel febbraio del 1963 due C-119 della 46a Aerobrigata ebbero modo di tornare in Congo, questa volta per fornire supporto al trasferimento lungo la rotta atlantica dei cinque F-86E (CL-13) della 4a Aerobrigata
ceduti alle forze aeree ONUC.
Nell’ottobre dello stesso anno, fu invece la Repubblica Democratica del Congo a richiedere al nostro governo l’invio di alcuni C-119 in occasione della “Journée de l’Armée”, l’anniversario della fondazione dell’Armata Nazionale Congolese. Tre C-119 raggiungesero Léopoldville il 13 novembre e il giorno successivo, dinanzi a un’enorme folla, lanciarono in formazione 120 paracadutisti con in testa il capo delle forze armate, e futuro presidente con il golpe del 1965, gen. Mobutu.
Nel maggio del 1964 il primo ministro Adoula venne in visita in Italia. Nel corso dei colloqui a Roma firmò un accordo con l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) per la costituzione di una società italo-congolese, la SOCIR (SOciété Congo-Italienne de Raffinage), destinata alla costruzione in Congo di una raffineria da
600mila tonnellate di petrolio all’anno. Nello stesso mese il rappresentante del governo congolese,
Lengema, firmò il protocollo di cooperazione tecnica militare con il governo italiano per la formazione
della forza aerea del Paese africano. Nasceva così la DICTMA (Delegazione Italiana di Cooperazione Tecnica Militare Aeronautica) che, con personale dell’Aeronautica Militare, avrebbe addestrato e assistito fino agli inizi degli anni 70 la nuova forza aerea congolese. Parallelamente, a partire dalla fine del 1964, una
quota di allievi del Paese africano venne in Italia per conseguire il brevetto di pilota presso le nostre
Scuole di Volo. Il 20 giugno 1966 venne concluso un altro accordo economico, questa volta per l’acquisto
di autobus, autoveicoli e autoambulanze di fabbricazione italiana. Due anni dopo fu la volta dell’importante contratto con le industrie del gruppo IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) per la costruzione dell’imponente diga d’Inga, alle foci del fiume Congo, e del contratto con l’Aermacchi per la fornitura di 17 addestratori MB.326 sempre con l’assistenza della DICTMA. Tutti i grandi nomi della moderna industria italiana si erano validamente affermati sul mercato congolese prima e zairese dopo. Nessun rancore ormai restava nei cuori per quel lontano Paese africano che, nella lotta per la sua indipendenza, aveva richiesto anche il sangue italiano, con il sacrificio di ben 21 uomini della 46a Aerobrigata.

Nell’autunno del 1961 le divisioni politiche all’interno del Congo erano ancora profonde: da un lato il governo centrale del presidente Kasa-Vubu e del primo ministro Adoula appoggiato dalle Nazioni Unite e forte delle truppe del gen. Mobutu, dall’altro i due leader secessionisti, il lumumbista Gizenga arroccato nella provincia orientale con le sue truppe al comando del gen. Lundula, e il più pericoloso Ciombe in Katanga
con la sua agguerrita gendarmeria. Malgrado ai primi di novembre i lumumbisti di Stanleyville si fossero avvicinati ai moderati di Léopoldville, con il giuramento di fedeltà del gen. Lundula al presidente
Kasa-Vubu e al comandante dell’esercito Mobutu, la situazione era ben lungi dal poter essere
considerata normalizzata. Anzi, proprio le lotte interne per il predominio sul territorio furono lo scenario in cui si consumò la più grave tragedia che colpì i caschi blu in Congo: l’eccidio di Kindu.
Sabato 11 novembre 1961 due C-119 decollavano, nelle prime ore del mattino, da Léopoldville diretti a Kamina, dove ciascuno doveva caricare un’autoblindo leggera Ferret con due autisti e alcune casse di munizioni da trasportare a Kindu per rinforzare la locale guarnigione di caschi blu malesi. Si trattava dell’“India 6049” (“Lupo 33”), al comando del magg. pil. Amedeo Parmeggiani e con a bordo il s.ten. pil. Onorio De Luca, il m.llo motorista Filippo Di Giovanni, il serg. marconista Antonio Mamone, il serg. magg. elettromeccanico di bordo Armando Fabi, il serg. magg. montatore Nicola Stigliani, e dell’“India 6002” (“Lyra 5”) al comando del cap. pil. Giorgio Gonelli con il s.ten. pil. Giulio Garbati, il m.llo motorista Nazzareno Quadrumani, il serg. marconista Francesco Paga, il serg. elettromeccanico di bordo Martano Marcacci, il serg. magg. montatore Silvestro Possenti e il ten. medico Francesco Paolo Remotti. Kindu, cuore della provincia del Kivu, era un importante centro attraversato continuamente da reparti congolesi diretti al sud per le sempre annunciate e mai realizzate offensive contro il Katanga. Da pochi giorni il
governo centrale vi aveva inviato l’ex capitano della gendarmeria congolese Vital Pakassa, da poco
nominato colonnello a soli 22 anni dal leader Gizenga, allo scopo di riorganizzare gli oltre mille soldati sbandati presenti in quell’area.
La sicurezza dell’aeroporto era affidata a una guarnigione di caschi blu appartenenti alla “B Company” del 6° Royal Malawi Regiment, che avevano sostituito a luglio i colleghi nigeriani, e che si stava procedendo a rinforzare con l’“A Squadron” del 2° Reconnaissance Regiment anch’esso appartenente alle forze speciali malesi. In tutto poco più di 200 uomini, equipaggiati con autoblindo leggere Ferret. I due C-119 atterravano rispettivamente alle 12.35 (India 6049) e alle 12.50 (India 6002). Benché l’orario di atterraggio e la natura del carico fossero state notificate in precedenza dall’ONUC sia alla propria guarnigione che alle forze locali dell’ANC (Armata Nazionale Congolese), tra i militari congolesi presenti a Kindu c’era già una certa agitazione per la notizia da poco diffusasi circa l’arrivo di un aereo con a bordo mercenari belgi di
Ciombe. Ricevuti dal comandante della guarnigione malese, magg. David Daud, gli italiani chiesero
di essere accompagnati presso la mensa ufficiali della guarnigione stessa, a circa un chilometro e mezzo dall’aeroporto, per ristorarsi essendo in volo già dalle cinque del mattino. Va detto subito, per inquadrare bene i fatti, che l’ONUC non disponeva all’epoca di un’organizzazione “intelligence”, per cui raramente i capiequipaggio ricevevano con l’ordine di operazione informazioni riguardanti il grado di sicurezza sugli aeroporti presidiati e non da truppe ONUC, l’eventuale presenza di armati dell’esercito congolese e il loro atteggiamento, la disponibilità di servizi logistici per gli equipaggi e i campi alternati in caso di emergenza.
Tutto ciò aveva costretto gli equipaggi, non di rado, a trascorrere la notte sull’aereo, a nutrirsi con le scatolette di cibo d’emergenza o, peggio ancora, ad affrontare prepotenze, al limite della violenza,  da parte di armati di ignota appartenenza, di ribelli sbandati o disertori. Il magg. Daud, essendo comandante della guarnigione malese cui era affidato l’aeroporto, era pure responsabile della difesa e della sicurezza dell’installazione e quindi degli equipaggi ONUC che vi atterravano. Secondo testimonianze di fonte malese, l’ufficiale responsabile della mensa fece presente al suo comandante che, con i pochi uomini di cui disponeva, aveva una limitata capacità di garantire la sicurezza agli italiani una volta fuori dall’aeroporto.
Il magg. Daud non gli diede peso e ordinò ugualmente il trasferimento, con due camionette, dei nostri
aviatori presso la mensa, accompagnandoli di persona. Sicuramente lo stato di pericolosità esistente nell’area non fu sufficientemente rappresentato in tutta la sua gravità ai due nostri capiequipaggio, i quali altrimenti non avrebbero messo a repentaglio la vita dei loro uomini per uscire dall’aeroporto, tanto più che, per ovviare alle indigeste scatolette, il pasto poteva essere trasportato in campo, data la ridotta distanza dalla mensa. Lo
stesso programmato e desiderato incontro con una famiglia di connazionali residente a Kindu sarebbe
stato tranquillamente cancellato.
Con quel volo, era già la 63a volta che i nostri C-119 raggiungevano Kindu dall’inizio della campagna
in Congo e, fino a quel momento, le insegne “ONU–Italian Air Force”, ben visibili sulle fusoliere dei velivoli e sulle combinazioni di volo, non avevano dato luogo a equivoci circa la nazionalità e l’appartenenza degli equipaggi. Anche per questa considerazione, le armi individuali in dotazione da utilizzare in caso d’emergenza rimasero a bordo dei velivoli, né il comandante malese suggerì loro di portarle al seguito. Alle 16.30, la villetta adibita a mensa, presso cui si trovavano in tutto 13 aviatori italiani e altrettanti militari malesi, fu circondata improvvisamente da una sessantina di uomini dell’ANC, con l’appoggio di altri duecento più arretrati.Il loro armamento era quantomai vario: dalle armi automatiche e semiautomatiche alle lance e
agli archi con le frecce; alcuni di essi indossavano pelli di animali. Questa soldataglia immobilizzò e
disarmò senza fatica i militari malesi di guardia, dopodiché fece irruzione all’interno della mensa arrestando e percuotendo selvaggiamente con il calcio delle armi i nostri aviatori, accusati di essere mercenari al servizio dei belgi. A nulla valsero le loro disperate spiegazioni e nemmeno quelle del magg. Daud, il quale ebbe fin dall’inizio un comportamento remissivo nei confronti dei ribelli congolesi, bloccando ogni successivo tentativo di reazione armata da parte dei suoi ufficiali per non aggravare,  a suo giudizio, una situazione già di per
sé esplosiva, che poteva provocare nell’immediato delle rappresaglie sui prigionieri e innescare poi una vera e propria battaglia tra la guarnigione e le forze congolesi. A quel punto i nostri aviatori, sanguinanti e alcuni già privi di sensi, vennero caricati su di un camion e trasferiti sul piazzale dinanzi alla prigione della città, distante più di un chilometro dalla mensa, dove, alla notizia dell’arresto di mercenari belgi, si stava radunando una folla eccitata.
Lì, tra le 17.30 e le 17.45, furono trucidati e i loro corpi orribilmente mutilati degli arti e delle parti intime per ricavarne trofei. Alcuni di questi furono distribuiti tra la numerosa folla, altri vennero lanciati o recapitati ai bianchi residenti a Kindu.
Due cadaveri mutilati furono trascinati lungo la via principale della città ed esposti. I “festeggiamenti” per
la cattura e l’esecuzione si protrassero per tutta la notte con ripetuti colpi di armi da fuoco, costringendo
tutti i residenti bianchi a barricarsi in casa per tre giorni. Fatta l’incursione alla mensa, i ribelli circondarono subito l’aeroporto intimando alla guarnigione malese di consegnare loro le 14 blindo Ferret in dotazione più le due trasportate dai velivoli italiani, con l’intento di impadronirsi dell’installazione.
Grazie all’iniziativa del cap. Maurice Lam, al comando quel giorno dello “A Squadron” del 2o Reconnaissance Regiment, che disubbidì agli ordini del magg. Daud – favorevole anche a quella ulteriore concessione – l’aeroporto fu messo in stato di difesa, facendo desistere i congolesi da ogni ulteriore azione. Così, 206 malesi si trovarono a fronteggiare 300 uomini circa dell’armata congolese, mentre altri 644 si trovavano nelle vicinanze.
Il 13 novembre, le forze effettive dell’ANC che circondarono l’aeroporto salirono a 700 e l’approvvigionamento idrico del campo fu interrotto.
Solo dopo tre giorni dall’esplodere della crisi, durante i quali un velivolo ONUC inviato in ricognizione
aveva rilevato la bandiera delle Nazioni Unite ancora sventolante sul pennone, arrivò in volo da Léopoldville il capo delle operazioni militari ONUC per acquisire informazioni dettagliate su quanto accaduto e riferire sulla eventi in corso.
Per bonificare l’area, il Quartier Generale ONUC mise subito a punto un piano di attacco alle forze ribelli presso i loro tre apprestamenti. L’operazione sarebbe stata condotta via terra dalle forze speciali malesi e dall’aria utilizzando i bombardieri Canberra messi a disposizione dalla forza aerea indiana. Tutto era pronto, ma all’ultimo momento il prevalere di considerazioni di ordine diplomatico e politico fecero cancellare l’opzione militare. La policy delle Nazioni Unite, in quel momento, era di evitare ogni contrasto e attrito con il governo congolese e di salvaguardare la reputazione delle sue truppe, tanto da giustificare lo stesso comportamento tenuto dal comandante della guarnigione malese. Terminato l’assedio, il 25 novembre fu possibile procedere al recupero dei due velivoli rimasti a Kindu. Un nostro C-119, al comando del ten.
col. Serafini, arrivò da Léopoldville con a bordo i due equipaggi designati che, dopo alcune ore necessarie al controllo dei velivoli, decollarono per il rientro nella capitale congolese. L’intera operazione potè svolgersi con la massima regolarità. Per fortuna, in mezzo a tanta barbarie, ci fu chi ebbe dei sentimenti di cristiana pietà. Si trattò del brigadiere della polizia carceraria di Kindu, Amisi N’Gombe, di religione cattolica, che il giorno 12 – al rientro da un permesso che l’aveva tenuto fuori dalla città durante il massacro – rimase sconvolto dalla macabra esposizione di quei poveri corpi mutilati.
Mosso anche da riconoscenza nei confronti dei caschi blu per quanto stavano facendo in Congo, non li buttò in pasto ai coccodrilli nel fiume Lualaba, come gli era stato ordinato, ma in gran segreto li seppellì nottetempo, con l’aiuto di cinque detenuti, in due fosse comuni nella boscaglia presso il vecchio cimitero di Tokolote. Per conoscere questa verità ci sarebbero voluti però due mesi, fino a quando il cappellano militare della 46a Aerobrigata, con l’aiuto dei missionari maristi belgi e del connazionale Alfio Arcidiacono residente a Kindu, non ne fu informato recandosi personalmente nella città congolese. La prima notizia dell’arresto
e del sequestro dei tredici uomini dell’Aeronautica  Militare era giunta in Italia nella mattinata del 13 novembre, provocando sconcerto e sgomento, ma lasciando aperto almeno uno spiraglio alla speranza di una loro successiva liberazione.
Il col. Pakassa aveva subito telegrafato a Gizenga e al gen. Lundula chiedendo loro di venire a Kindu, mentre l’Ambasciata d’Italia a Léopoldville si era messa tempestivamente in contatto con il governo congolese affinché si procedesse all’immediata liberazione dei prigionieri. Il 13 novembre il primo ministro Adoula informava l’ambasciatore italiano, dott. Franca, che nello stesso giorno erano partiti in volo per Kindu un rappresentante del Quartier Generale ONU e un ufficiale dell’Armata congolese, ma che non si riteneva opportuna un’azione di forza per timore di rappresaglie sui prigionieri. Il giorno successivo, l’ambasciatore
Franca riferiva al nostro ministero degli Esteri i primi risultati della missione ONUC: il col. Pakassa aveva assicurato che i prigionieri sarebbero stati restituiti all’arrivo a Kindu del gen. Lundula, atteso in giornata, ma aveva negato il permesso per farli visitare adducendo difficoltà nel garantire l’incolumità dei visitatori. Nello stesso giorno, però, partiva per Kindu, oltre al ministro dell’Interno Gbenye, al segretario di Stato alla difesa del governo congolese e al gen. Lundula, il nostro funzionario alle Nazioni Unite dott. Giorgio Pagnanelli. La
nuova versione di Pakassa era quella che i prigionieri erano evasi nella nottata e se ne ignorava la sorte. A questo punto il nostro diplomatico denunciò la farsa e, ottenuta non senza difficoltà una scorta di caschi blu malesi, si recò personalmente nella città di Kindu per raccogliere informazioni dirette. Ciò che si temeva fu, purtroppo, confermato da alcuni testimoni che avevano assistito al fatto: i tredici aviatori italiani erano stati barbaramente trucidati e i loro resti, secondo quanto riferito, gettati nel fiume. Qualcuno aveva anche scattato delle fotografie del massacro. Nelle prime ore del 16 novembre, il primo ministro Adoula pregò il nostro
ambasciatore a Léopoldville di far pervenire al governo italiano le più sentite condoglianze, esprimendo
il suo rammarico per il fatto che fossero rimasti vittime dell’incidente aviatori di un Paese come l’Italia con il quale c’erano sempre stati rapporti d’amicizia; promise inoltre di adottare drastici provvedimenti nei confronti dei responsabili, una volta identificati. In quello stesso 16 novembre il giornale radio delle 13.00 annunciò all’Italia la tragica notizia, suscitando grande emozione e sdegno per la barbarie commessa dai congolesi. Il fatto più grave fu che anche i familiari dei caduti lo vennero a sapere brutalmente attraverso la radio, il cui comunicato precedette di poco la visita a domicilio dei rappresentanti della Forza Armata inviati per avvisarli. Il giorno dopo il ministro della Difesa Giulio Andreotti partecipò nel Duomo di Pisa al solenne
rito funebre celebrato in memoria dei caduti. Intervistato dai giornalisti, dichiarò che il governo avrebbe fatto tutto il possibile per perseguire i colpevoli,  ma che la missione in Congo sarebbe continuata.
Non mancarono, nelle settimane successive, le interpellanze parlamentari e le strumentalizzazioni politiche. Anche in seno all’ONU ci furono Nazioni che chiesero di bombardare Kindu per dare una lezione ai congolesi, altre accusarono l’ONUC di incapacità organizzativa e operativa. La  stessa stampa francese, belga e britannica, difendendo più o meno apertamente per interessi economici nazionali la secessione del Katanga, si schierò contro le Nazioni Unite. Memorabile fu il commento del secessionista Ciombe su Le Monde: «Ecco cosa succede con l’ONU!».
L’aspetto più squallido della vicenda fu l’arrivo a Léopoldville di “inviati speciali” senza scrupoli che, standosene comodamente alloggiati negli hotel della capitale, riferirono in diretta a 2.000 chilometri da Kindu gli ulteriori macabri particolari raccolti sull’eccidio, accrescendo lo strazio dei familiari. Il 2 dicembre 1961 venne designata la commissione d’inchiesta ONUC per i fatti di Kindu. A rappresentare la Forza Armata fu chiamato il ten. col. pil. Francesco Terzani dello Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare. Il giorno successivo la commissione iniziò i suoi lavori trasferendosi a Stanleyville, dove erano stati incarcerati 30 soldati congolesi accusati dell’eccidio dei nostri aviatori. L’opera di don MasettoIn questa tragica vicenda risplende la missione pastorale di un sacerdote, don Emireno Masetto, all’epoca cappellano militare della 46a Aerobrigata e oggi non più tra noi. Coraggioso e non incline ai compromessi, altruista fino all’incredibile, don Emireno fin dai primi giorni della tragedia di Kindu era stato vicinissimo alle famiglie dei caduti, cercando
di alleviare la loro sofferenza. Desiderava però, recarsi nella città del massacro per poter parlare ai familiari con maggiore cognizione di causa e portare loro almeno un po’ di terra, o comunque qualcosa che servisse a sostituire il tragico vuoto della sparizione delle salme. Riuscito a convincere il gen. Fiori, allora comandante della 2a Regione Aerea, fu autorizzato a recarsi in Congo a metà dicembre del 1961, per una visita al Distaccamento in occasione del Natale, come già aveva fatto l’anno precedente. Arrivato a Léopoldville il 15 dicembre, don Emireno fu ricevuto il giorno successivo dal delegato apostolico mons. Mojaisky Perrelli,
al quale espose il suo progetto di andare a Kindu come missionario, ottenendo il necessario appoggio. Nell’attesa di trovare un volo per Kindu, in quanto l’Air Congo aveva sospeso i collegamenti con il Kivu e i nostri C-119 erano tutti impegnati nel Katanga, il 26 dicembre potè incontrare presso la residenza di Binza fratel Gildo Cotta dei Frères Maristes, il quale gli fece leggere una lettera da Kindu, datata 8 dicembre, di fratel Von Halst, che dall’ultimo piano della missione dei maristi, aveva visto uccidere gli aviatori italiani. In essa non si faceva alcun riferimento alla versione ufficiale sull’impossibilità di recuperare le salme, avvalorando l’idea del cappellano che con la sua visita a Kindu avrebbe potuto acquisire nuovi importanti elementi.
Grazie all’interessamento del col. Nino Pasquali, Air Base Commander di Léopoldville, fu possibile superare le difficoltà tecnico-burocratiche per ottenere l’imbarco su uno dei voli ONUC e, finalmente, il 2 gennaio 1962 don Emireno potè partire per Kindu. Presso la procura dei Frères Maristes incontrò, così, il vescovo di Kindu, mons. Jean Fryus, il quale lo fece accompagnare in macchina sui luoghi della tragedia. Ma, soprattutto, gli fece incontrare un nostro connazionale, residente a Kindu con i suoi due fratelli, il sig. Alfio Arcidiacono, ben informato sui fatti e amico, fin dai primi giorni della campagna, degli aviatori del distaccamento. L’imprenditore italiano gli riferì che le salme dei nostri caduti non erano state gettate nel fiume, ma sepolte nel cimitero di Tokolote, a cinque chilometri dalla città, e si offrì di accompagnarlo sul
luogo. Don Emireno preferì rinunciare poiché la sua presenza era stata già notata a Kindu e non voleva
rischiare, con una mossa azzardata, di compromettere il lavoro che da quarant’anni la missione svolgeva nella città. Cercò invece di ripartire al più presto per Léopoldville, avvalendosi di uno dei nostri C-119 atterrati quel giorno a Kindu per iniziare le operazioni di sgombero del famigerato contingente malese, sostituito da quello etiopico. Al suo arrivo nella capitale congolese, comunicò subito la notizia dell’esistenza delle salme al col. Pasquali e al comandante del Distaccamento, il ten. col. Picone, nonché al segretario del delegato
apostolico mons. Calabresi. Ulteriori comunicazioni le fece il 9 gennaio 1962 al suo rientro a Roma, informando il gen. Fiori e il capo di Stato Maggiore gen. s.a. Aldo Remondino tramite il cappellano
capo don Venturini. Nel frattempo, la commissione d’inchiesta ONUC si era messa al lavoro tra non poche difficoltà: gli interrogatori erano ostacolati, oltre che dalle grandi distanze tra le varie località interessate, anche dalla reticenza di gran parte dei testi e dallo stato di guerra in Katanga. Il 20 febbraio 1962 si trasferì, così, a Kindu per proseguire i lavori in loco e procedere finalmente alla riesumazione dei nostri 13 caduti. Il volo di trasferimento da Léopoldville venne effettuato con un C-119 del distaccamento, ai comandi del ten. col. Picone e del magg. Poggi, navigando nel tratto terminale della rotta a bassissima quota per ridurre al
minimino eventuali rischi di avvistamento, qualora il campo fosse stato accerchiato. Si sapeva che per
i congolesi la riesumazione avrebbe costituito la prova certa della loro colpevolezza e delle loro brutalità. Le operazioni ebbero inizio alle ore 8.00 del giorno 23, con la protezione dei caschi blu etiopici e alla presenza dei medici Finken e Oschmuller della Croce Rossa Austriaca, richiesti dalla commissione mista per stilare un rapporto dettagliato sullo stato delle salme. Queste erano state sepolte in due fosse comuni e precisamente sei in una e sette nell’altra, ai margini della boscaglia; fortunatamente il terreno argilloso della zona le aveva ben conservate, tanto che i due sottufficiali della 46a incaricati del riconoscimento, i m.lli Renato Battistuti e Mario Meschi, riuscirono a identificarli con certezza. Per coloro che, ancora oggi, mettono in dubbio l’esistenza delle spoglie nel Sacrario di Kindu a Pisa, aggiungiamo che un fotografo incaricato dall’ONU riprese tutti i cadaveri nello stato in cui si trovavano. Una volta piombati, i feretri vennero trasferiti sull’aeroporto di Kindu dove, con gli onori dei caschi blu etiopici, furono imbarcati sul nostro C-119, per il successivo trasporto a Léopoldville durante la notte. Il 10 marzo, il primo ministro Adoula e l’incaricato
 della missione ONU Robert Gardiner presenziarono sull’aeroporto di N’Djili alla cerimonia prima della partenza delle salme per l’Italia a bordo del C-124 messo a disposizione dall’USAF (United States Air Force). Trasbordate successivamente presso la Wheelus Air Base in Libia su di un C-130 della stessa forza aerea, giunsero a Pisa l’11 marzo con la scorta d’onore degli F-86K del 23° Gruppo, anch’essi di base a San Giusto. Il giorno dopo in Duomo, alla presenza delle più alte cariche dello Stato, fu celebrato dall’Arcivescovo di Pisa mons. Ugo Camozzo il solenne rito funebre, al termine del quale le salme trovarono provvisoria dimora nella cripta della chiesa di Santa Caterina. Tale sistemazione, in attesa che venisse eretto un apposito tempio sacrario ai margini dell’aeroporto di San Giusto, per la cui raccolta dei fondi la RAI-TV
aveva lanciato la “Catena della Fraternità”. Lo slancio di tutta la Nazione fu davvero commovente e, in breve tempo, potè essere raccolta la somma di 264.720.211 lire, ben superiore a quanto necessario per la realizzazione del sacrario, consentendo così di devolvere la differenza a favore delle madri, delle vedove e degli orfani dei 13 aviatori. Pochi giorni prima del definitivo rimpatrio del nostro contingente, gli uomini della 46a vollero ringraziare e festeggiare il loro umile amico congolese che aveva permesso il recupero delle salme a Kindu. Convocato il 7 giugno presso l’Ambasciata d’Italia a Léopoldville, il brigadiere N’Gombe ricevette dalle mani del nostro ambasciatore la somma premio di 500mila lire. Da quella volta, di lui non si
seppe più niente. Il 18 luglio 1962 la Commissione d’inchiesta ONUC depositò il suo rapporto definitivo
sul massacro di Kindu.
Sulla base degli interrogatori eseguiti e delle informazioni raccolte dichiarò la colpevolezza: a) del ten. Michel Orera, all’epoca detenuto nella prigione di Kipushi, a 27 km da Elisabethville, riconosciuto, in qualità di comandante della 2a Compagnia del VI Battaglione di Watsa, come colui che aveva diretto ed eseguito l’arresto e la successiva fucilazione degli aviatori italiani; b) del col. Pakassa, in quanto comandante della
piazza; c) del magg. Malungi, in quanto responsabile della guarnigione di Kindu; d) dei due militari Vincent Hakizimana e Ferdinand Osomba, trovati in possesso di carne umana. La commissione aveva accertato altresì l’innocenza dei 30 militari indicati dopo gli incidenti dal col. Pakassa quali responsabili dell’eccidio. A questo punto molti si aspettavano un processo, che però non fu mai celebrato, lasciando l’amaro in bocca a quanti, direttamente o indirettamente, avevano vissuto la tragedia di Kindu. Del ten. Orera, lo spietato “Nyamu–Nyamu” (il barbuto), malgrado la richiesta di estradizione rivolta al ministro della Giustizia di Ciombe, si persero successivamente le tracce, mentre il famigerato col. Pakassa riuscì a godere di non poche protezioni prima di essere assassinato a Il Cairo nel 1965. Arrestato il 17 gennaio 1962 dal governo di Léopoldville, per “insubordinazione e rivolta” a vantaggio dell’avversario Gizenga, era stato liberato nel giugno 1963 con il consenso del primo ministro Adoula, scappando a Brazzaville dove aveva assunto il comando delle Forze Armate Rivoluzionarie. Nel dicembre dello stesso anno era stato nuovamente arrestato, questa volta a Parigi, perché sorpreso con un passaporto falso, ma il tribunale francese non aveva voluto concedere l’estradizione né in Italia, né in Congo.
Nelle sue memorie difensive, scritte durante la detenzione in Francia, Pakassa attribuì la responsabilità
dell’eccidio di Kindu a un complotto ordito dal gen. Lundula, fedele al primo ministro Adoula, per sbarazzarsi dell’avversario Gizenga a Stanleyville e di lui stesso per avere così campo libero nella provincia orientale. A tal proposito non si può non rilevare che, fin dai primi momenti dell’incidente di Kindu, il ministro Adoula aveva indicato quale responsabile della grave situazione interna congolese il leader Gizenga, erede di Lumumba, poi definitivamente spodestato dopo i fatti del dicembre 1961. Pakassa pose anche degli inquietanti interrogativi, a cui non è mai stata data risposta nemmeno dall’ONU nella sua inchiesta. Chi diffuse tra i militari congolesi di stanza a Kindu la falsa notizia che l’11 novembre sarebbe arrivato un aeroplano con dei paracadutisti mercenari di Ciombe per compiere un’azione militare o di spionaggio?
E ancora. Perché i codici di identificazione ONUC dei due C-119 italiani erano stati trasmessi a Kindu inesatti in modo da alimentare tra gli uomini della guarnigione il dubbio che si trattasse di aeroplani camuffati? La radio clandestina che telegrafò questo esplosivo messaggio a Kindu non fu mai identificata dalla commissione d’inchiesta, ma due elementi sono però certi. Da un lato, che la lotta politica all’interno del governo congolese stava raggiungendo in quel periodo i suoi livelli più alti. Scopo del ribelle Gizenga era proprio quello di dimostrare che l’ONUC non era capace di risolvere i gravi problemi del Congo, né tantomeno di ristabilire l’ordine e la sicurezza in supporto al neocostituito governo nazionale. Dall’altro, che la polikindu tica dell’ONU aveva mostrato tutti i suoi limiti e che, dopo la scelta di campo del 1961 in favore
della leadership Kasa-Vubu-Adoula-Mobutu, vi era tutto l’interesse a non inasprire i rapporti con inchieste
e punizioni severe, cercando piuttosto di venir fuori prima possibile dalla palude della crisi congolese. Non va dimenticato neppure che, dopo il rimpatrio del contingente italiano nel giugno del 1962, le operazioni ONUC proseguirono tra non poche difficoltà fino al giugno del 1964, epoca del ritiro dal Congo, con un bilancio finale pesantissimo di 235 caschi blu morti di cui 126 in combattimento, 75 in incidenti e 34 per malattie. Nel
 marzo del 1963 si potè dare, finalmente, una definitiva sepoltura ai caduti di Kindu nello splendido sacrario, realizzato peraltro a tempo di record, sulla via d’ingresso all’aeroporto di Pisa. Il giorno 13 il tempio fu consacrato e il giorno successivo, con un mesto corteo attraverso le vie della città toscana, sorvolato da una stupenda formazione di C-119, vi furono traslate le salme di 11 dei 13 caduti, in quanto quelle del ten. med. Remotti e del serg. magg. Stigliani erano state reclamate dalle rispettive famiglie. Il giorno 15, infine, alla presenza del presidente del Consiglio Fanfani e del ministro della Difesa Andreotti, il tempio fu ufficialmente
inaugurato. Purtroppo don Masetto non aveva potuto completare la sua opera curando personalmente la sepoltura dei caduti di Kindu, poiché l’anno prima l’Ordinariato Militare lo aveva mandato a fare il cappellano presso il 1° Reggimento Granatieri di Sardegna a Roma. Un provvedimento che  lui interpretò come una punizione per essersi interessato al ritrovamento di quei poveri corpi e che gli riempì il cuore di una grande amarezza. Ma quando, nel febbraio del 1985, don Emireno morì nella sua Vicenza, stroncato da un male incurabile, l’Ordinario Militare mons. Gaetano Bonicelli ebbe a dire nel corso dell’omelia funebre: «[...] nel tempio di Kindu io vorrei riuscire a mettere una lapide accanto a quella che ricorda i nostri valorosi Caduti…vorrei mettere una semplice lapide dove c’è un nome, quello di don Emireno». Gli ultimi atti di
questa sofferta vicenda si sono registrati in occasione del 33° anniversario dell’eccidio e, a livello legislativo, nel 2006. Il 27 ottobre 1994, sull’aeroporto di Pisa, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha consegnato ai familiari dei caduti di Kindu la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria, con le scuse ufficiali dello Stato italiano per quanto avevano dovuto subire in quei lunghi 33 anni. Nel 2006, invece, su iniziativa dell’on. Marco Boato, sollecitato dall’indignazione di alcuni familiari, è stata approvata la proposta che ha esteso i benefici stabiliti dalla legge n. 206 del 3 agosto 2004, conosciuta anche come “Legge Nassiriya”, ai caduti di Kindu. I familiari di questi ultimi erano stati precedentemente esclusi da quel trattamento, trattandosi di eccidio verificatosi anteriormente al 2003, stabilito come anno di partenza per
l’applicazione della legge suddetta. Oggi, a 50 anni da quei tragici fatti, non ci resta che onorare la memoria
dei caduti di Kindu, rinnovando l’impegno comune a tramandare presso le generazioni future il ricordo del loro sacrificio per la nobile causa della pace.

La proposta avanzata dall’Associazione Famiglie Caduti e Mutilati dell’Aeronautica di Pisa, subito dopo la notizia dell’eccidio, di lanciare una sottoscrizione pubblica per erigere un monumento in memoria dei caduti di Kindu fu fatta propria dalla RAI-TV, che assunse un’iniziativa a livello nazionale denominandola “Catena della Fraternità”.  Nel rispondere a questo invito, il popolo italiano dette prova di grande sensibilità e generosità consentendo, come si è detto, di raggiungere in breve tempo la somma di 264 milioni di lire, ben
superiore a quella necessaria per costruire il Sacrario. Solo per dare un’idea della corale partecipazione
all’iniziativa, le offerte arrivarono da enti e istituzioni sparsi qua e là per l’Italia, così come da professionisti e artisti, impiegati e operai, studenti e casalinghe. L’Assemblea regionale siciliana donò, ad esempio, un milione, il Casinò di Sanremo, 200mila lire. La compagnia di prosa Fantoni-Ilaria Occhini volle partecipare con la somma di 50mila lire, mentre Domenico Modugno e Delia Scala, impegnati a Roma nella rappresentazione della commedia musicale “Rinaldo in campo”, interruppero addirittura lo spettacolo per promuovere la raccolta di offerte. E ancora, l’equipaggio in navigazione della petroliera “AGIP-Gela” informò a mezzo radiogramma di aver raccolto 47mila lire; altre 30mila arrivarono dall’equipaggio della nave statunitense “Minnesota”. E poi, tanti, tanti cittadini appartenenti a ogni classe sociale e in situazioni contingenti tra le più disparate, come un sopravvissuto al naufragio della nave “Bianca C.” o il detenuto
del carcere di Molfetta, Cosimo Di Tullio, che volle inviare l’intero ammontare dei suoi risparmi, duemila lire in tutto. Un’altra sottoscrizione venne aperta a livello locale, tra i medici della provincia di Pisa, dal dott. Renato D’Angelo, a favore della famiglia del collega ten. Paolo Remotti, la cui carriera professionale fu stroncata agli albori. Tenuto conto che per il progettato Sacrario sarebbero stati necessari 50 milioni, l’eccedenza dei fondi raccolti con la “Catena della Fraternità” potè essere devoluta dalla RAI alle famiglie dei caduti di Kindu e degli altri aviatori deceduti durante la campagna in Congo, nella misura di sette milioni per ciascuna vedova, figlio (con il vincolo del raggiungimento della maggiore età) e genitore, nel caso degli aviatori scapoli.
La rimanenza fu destinata all’ONFA (Opera Nazionale Famiglie Aviatori). Trovati i fondi per il tempio, la questione più dibattuta fu la scelta del sito dove costruirlo. Tra le varie soluzioni proposte, quella relativa alla realizzazione dell’opera all’interno dell’area logistica dell’aeroporto di San Giusto incontrò maggiori consensi. La soluzione, accettata dallo stesso ministro della Difesa Andreotti, consentiva di avere finalmente una vera e propria cappella in sostituzione della baracca di legno in cui il cappellano dell’Aerobrigata era costretto a
celebrare la Messa. Unica limitazione, l’accesso dei civili al tempio, soggetto inevitabilmente alle misure di vigilanza della base, venendosi a trovare al suo interno. Altrimenti, come soluzione alternativa, vi era quella di utilizzare il terreno offerto dal comune di Pisa nelle vicinanze del vecchio cimitero di San Giusto, lungo la via Asmara, o meglio quello demaniale disponibile sulla confluenza della via degli Olmetti con la via Asmara. Tale collocazione avrebbe mantenuto ugualmente il legame ideale tra i caduti e il loro campo di volo,
consentendo un agevole accesso al tempio sia ai militari che ai civili. Alla fine del 1961, l’arch. Giovanni
Michelucci ricevette così l’incarico di progettare il tempio. Michelucci era un autentico maestro ll’architettura italiana, tra le cui opere principali figuravano la stazione di Santa Maria Novella a Firenze, il Palazzo del Governo ad Arezzo, il nuovo Ponte alle Grazie a Firenze e numerose chiese di indubbio valore innovativo. Proprio con una cappella, realizzata nel 1916 sul fronte orientale a Casale Ladra vicino Caporetto, Michelucci aveva iniziato la sua brillante carriera professionale. Il primo progetto per i caduti di Kindu prevedeva la realizzazione di una piccola collina artificiale, una sorta di acropoli, con un percorso ascendente
per raggiungere l’altare posto alla sua sommità; lungo tale percorso erano collocati 13 massi votivi in ricordo di ciascuno dei caduti. L’originale idea ispiratrice superava la concezione statica del ricordo, che normalmente si materializzava in un volume architettonico chiuso in sé stesso o in una statua. Ma, con grande disappunto di Michelucci, l’intero progetto, pur avendo ricevuto pareri favorevoli dagli organi competenti del ministero della Difesa, non incontrò l’approvazione delle autorità religiose, che desideravano la realizzazione essenzialmente di una cappella, in grado di soddisfare le esigenze liturgiche del caso. Secondo questo intendimento, l’area monumentale ideata da Michelucci doveva essere ridimensionata a semplice “cappella votiva”, con conseguente richiesta di maggiore semplicità. Seccato dalla mancata approvazione,
l’architetto pistoiese lasciò l’incarico ma, a seguito delle pressioni ricevute da amici ed estimatori, ristudiò in tempi ristretti, con il suo collaboratore Aldo Pasquinucci, un secondo progetto per realizzare la cappella richiesta. Grazie alla sua sensibilità artistica, interpretò il contesto aeroportuale sul quale doveva sorgere in modo del tutto originale, producendo risultati di grande espressività. In particolare, stabilì un rapporto di comunicazione simbolica e di visibilità dell’edificio con il campo di volo antistante. Pur conservando la traccia
dei 13 massi commemorativi del gruppo roccioso a lui caro, la cappella presentava sia nella planimetria che nella volumetria soluzioni di notevole originalità. Sviluppata su di un solo piano, la cappella aveva pianta trapezoidale secondo un altro tema a lui caro, quello dell’aula unica articolata in diversi ambienti e con la doppia quota del ballatoio retrostante l’altare. Nella parte strutturale vi era poi un evidente riferimento all’hangar, con quattro imponenti pilastri metallici collegati da cerniere a travi reticolari, ai quali corrispondevano sul lato opposto altrettanti snelli pilastri a struttura reticolare. All’esterno, sulla massa semplice e lineare dell’edificio realizzato in cemento faccia a vista, risaltavano il corpo della torre campanaria e la copertura in rame che sul retro si impennava con un profilo d’aereo. Il fronte presentava delle grandi superfici vetrate, ritmate da moduli rettangolari, su cui si potevano rispecchiare gli aeroplani sul campo di volo; lungo il percorso interno adiacente, Michelucci aveva pensato di collocare 13 inginocchiatoi in ricordo di ciascun caduto, ma il ritrovamento delle salme in Congo richiese un’ulteriore modifica che portò alla realizzazione di una lunga fascia di marmo nero. Tale cambiamento di destinazione determinò il passaggio da “tempio votivo”, come era inizialmente previsto, a “tempio sacrario”. Altro elemento di originalità era l’altare rivolto verso il popolo e al livello del pavimento, attorno cui disporre la comunità celebrante, che precorreva
disposizioni di più facile attuazione negli anni postconciliari e che, all’epoca, richiese invece una specifica autorizzazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Michelucci si trovava, del resto, nel pieno della sua riflessione e della sua opera innovativa sullo spazio sacro, che potè ben esprimere nella progettazione del tempio di Kindu e della coeva chiesa di San Giovanni Battista, nota come “chiesa dell’autostrada”, realizzata lungo l’A1 a Campi Bisenzio (Firenze). Due opere ispirate all’essenzialità e alla coralità della funzione, ben evidenti negli spazi e nelle superfici progettate. Ricevuto l’incarico dalla RAI, la Direzione Tecnica della Gestione INA-Casa nella primavera del 1962 appaltò la costruzione del Sacrario, secondo l’ultimo progetto approvato, a due ditte specializzate: la Società Silvio Panichi e figlio di Pisa per le opere murarie, e la ditta Costruzioni Metalmeccaniche ing. G. Spotti di Parma per il calcolo e l’esecuzione delle opere metalliche. I lavori ebbero inizio nel mese di maggio, sotto la direzione dell’ing. Vincenzo Gabbati e del suo assistente
geom. Vinicio Barsanti. Ciò poneva fine allo stato di disagio dei familiari, che non sopportavano più di vedere allineati in terra nella cripta di Santa Caterina i feretri dei loro cari, come se fossero in un magazzino. Già due dei caduti, il ten. Remotti e il serg.magg. Stigliani, erano stati reclamati dai familiari per essere tumulati nel cimitero del loro paese. Altri parenti avevano minacciato di fare altrettanto. Ai primi di settembre
erano già state ultimate le strutture del braccio di sinistra del Sacrario, mentre stavano per essere iniziate le colate in calcestruzzo del corpo centrale e dell’ala di destra comprendente la torre campanaria. Poi sarebbe stata la volta della struttura metallica di sostegno del tetto e della copertura in rame di quest’ultimo. Per l’arredo interno, semplicissimo secondo il progetto originario, furono commissionati i banchi – su disegno dello stesso Michelucci – alla ditta di Bologna di uno dei fratelli del magg. Parmeggiani, Marino, che si era
offerto di realizzarli. La città di Carrara donò, invece, i 13 massi votivi di marmo da collocare all’esterno
in memoria di ciascuno dei Caduti, mentre la RAI tre campane per il campanile. Fuse dalla ditta Lera e Magni di Lucca, con peso, rispettivamente di 450, 100 e 70 chilogrammi, la prima recava incisi i nomi dei 13 aviatori e l’immagine della Madonna di Loreto, la seconda la dedica “La RAI ai caduti della 46a Aerobrigata” e la sagoma di tre velivoli C-119, la terza infine la dedica ai Caduti di tutte le guerre con al centro un crocifisso e lo stemma dell’Ordinario Militare. Una quarta campana, per la sacrestia, era stata donata dai fratelli Antonio, Vittorio e Pietro Bonoli di Treviso e portata a Pisa con un C-119 dell’Aerobrigata già ad aprile. Si trattava di una fusione del 1700 del maestro Fontaguti di Fano, con decorazioni e immagine della Vergine Lauretana, divenuta patrona degli aviatori negli anni Venti. Altre donazioni significative furono quelle dell’altarino per il battistero da parte dell’Istituto d’Arte di Pietrasanta e di due grosse zanne d’avorio da parte dei fratelli Arcidiacono, connazionali residenti a Kindu che tanto si
erano adoperati per gli aviatori della 46a Aerobrigata. Nel febbraio del 1963 il tempio era praticamente
pronto, mancavano solo alcuni ritocchi alla sistemazione esterna e ai giardini, per cui potevano essere programmate le cerimonie di traslazione delle salme e di inaugurazione per il successivo mese di marzo, con netto anticipo rispetto alla scadenza del primo anniversario dell’eccidio. Il giorno 13 il cappellano capo della 2a Regione Aerea, don Venturin, procedette alla benedizione del Sacrario, assistito da don Alfredo Alessandri, il nuovo cappellano della 46a Aerobrigata subentrato a don Emireno Masetto. Il giorno successivo, con una solenne cerimonia attraverso le vie di Pisa, le salme raggiunsero la loro ultima dimora dopo aver ricevuto la benedizione in piazza della Stazione dal vescovo di Pisa, mons. Ugo Camozzo.
Infine il giorno 15, alla presenza del presidente del Consiglio, on. Amintore Fanfani, del ministro
della Difesa, on. Giulio Andreotti, e dell’ex capo dello Stato, sen. Giovanni Gronchi, il Sacrario venne ufficialmente inaugurato. Alla cerimonia avrebbe dovuto partecipare anche il Presidente della Repubblica, on. Antonio Segni, ma un’improvvisa indisposizione lo aveva trattenuto a Roma. Il rito religioso fu officiato dall’Ordinario Militare, mons. Pintonello. Da quel momento il Sacrario divenne luogo di pellegrinaggio, meditazione e preghiera per tutti gli italiani che lo desideravano. In breve tempo molte furono le visite di enti e associazioni di categoria.
A parte coloro che venivano appositamente, chi faceva sosta a Pisa difficilmente ripartiva senza aver 
visitato l’originale opera dell’arch. Michelucci e reso omaggio agli sfortunati aviatori. Aprì la lunga serie di visite ufficiali, il 12 luglio 1963, il segretario generale delle Nazioni Unite, U-Thant, ricevuto dal sindaco di Pisa, dott. Umberto Viale, e di Firenze, prof. Giorgio La Pira. Lo statista birmano rese omaggio ai 13 aviatori italiani con la deposizione di una corona di alloro e un breve discorso in cui sottolineò che «[…] questi 13 tra i più nobili figli d’Italia devono essere ricordati non solo per quello che sono stati, ma come
l’eroica avanguardia di coloro – e sono molti – che operano senza pausa in molti Paesi per un mondo
migliore e più giusto». Il 9 novembre arrivò dal  Congo anche il vescovo di Kindu, mons. Jean Fryus, che aveva vissuto in prima persona la tragica vicenda degli aviatori italiani. Nell’occasione donò all’Aerobrigata la statuetta della Madonna dei Poveri, testimone dell’eccidio di Kindu, che fu collocata nel battistero del Sacrario tra le due zanne d’avorio. A partire dal 1964, le funzioni religiose celebrate nel Sacrario si ampliarono per soddisfare le necessità e le richieste del personale dell’Aerobrigata. Il primo battesimo fu celebrato il 7 febbraio di quell’anno; seguirono il 21 marzo le prime cresime per due sottufficiali. Il 24 aprile tra le sue pareti si rinnovarono invece tristezza e dolore, con le prime esequie in forma solenne per dei nuovi caduti della 46a Aerobrigata: l’equipaggio del C-119 inabissatosi quattro giorni prima dinanzi a Marina
di Pisa. Un triste rito che si sarebbe ripetuto, purtroppo, altre volte in futuro. Il 10 ottobre di quell’anno
fu la volta anche del primo matrimonio. Nel frattempo, il 10 maggio il Sacrario aveva ricevuto la  visita del primo ministro della giovane Repubblica Congolese, Cyrille Adoula, prima tappa del suo viaggio diplomatico in Italia. Ricevuto a Roma dal presidente del Consiglio Aldo Moro, Adoula dichiarò che il sacrificio dei nostri aviatori «[…] non era stato vano perché aveva contribuito a rinsaldare le relazioni tra i due Paesi e la cooperazione fra l’Italia e il Congo [...]». Il 19 novembre 1964, alla presenza del ministro dei Trasporti e Aviazione Civile, sen. Angelo Raffaele Jervolino, anche la città di Roma inaugurò un monumento e una piazza in memoria dei caduti di Kindu. La stele, costituita da un blocco parallelepipedo con bassorilievi, era
stata innalzata molto significativamente sul piazzale antistante l’aerostazione di Fiumicino. Altri monumenti e cippi furono dedicati successivamente nei vari paesi di origine dei caduti e in altre città d’Italia. Ma l’evento più significativo per il Sacrario fu la visita, il 10 giugno 1965, del pontefice S.S. Paolo VI, venuto a Pisa per presenziare il XVII Congresso Eucaristico Nazionale. Il Santo Padre, dopo aver sostato in preghiera dinanzi
all’altare e impartito la benedizione, si intrattenne con i familiari dei caduti rivolgendo loro affettuose espressioni. Il 13 novembre di quello stesso anno fu la volta del primo presidente della Repubblica, l’on. Giuseppe Saragat, nel corso della sua visita ufficiale alla 46a Aerobrigata. Il giorno 25, a rendere omaggio ai caduti di Kindu, fu invece l’arcivescovo di New York, card. Francis Spellman, di passaggio da Pisa. Da allora non vi fu visita ufficiale alla 46a Aerobrigata e alla città di Pisa che non passasse al Sacrario di Kindu. Il 21 aprile 1986, con l’emanazione della Costituzione Apostolica “Spirituali Militum Curae”, l’Ordinariato Militare divenne a tutti gli effetti Diocesi Militare; di conseguenza, il Sacrario di Kindu assunse il ruolo
di vera e propria parrocchia per il personale dell’Aerobrigata e i familiari residenti nell’area di sua
giurisdizione.
Dieci anni più tardi venne ufficializzata la nuova funzione del Sacrario come tempio dedicato alla memoria di tutti i caduti della 46a Brigata Aerea, con l’iscrizione su una porzione muraria interna dei lori nomi a partire dal 1958. Una decisione che non piacque ad alcuni familiari dei caduti di Kindu poiché in apparente contrasto con lo scopo originario del tempio, ma che rispondeva all’esigenza successivamente manifestatasi di tutelare e onorare la memoria di tutti gli altri uomini del Reparto caduti nell’adempimento del dovere. Il 10 novembre 2001, nel quarantesimo anniversario dell’eccidio di Kindu, fu organizzata una grande cerimonia che precedette di alcuni giorni la chiusura del Sacrario per ormai improcrastinabili interventi di restauro.
Al termine dei lavori, la cerimonia solenne di dedicazione del 23 maggio 2003 lo ha restituito al suo ruolo di luogo di preghiera e di memoria collettiva. Ripristinato così nei suoi contenuti di essenzialità evocativa, il Sacrario di Kindu continua a suggestionare i visitatori con i suoi impatti visivi e gli episodi figurativi contenuti, rimanendo significativa testimonianza della creatività architettonica moderna.

I CADUTI DI KINDU
EQUIPAGGIO “LUPO 33”
Magg. Amedeo PARMEGGIANI S.ten. Onorio DE LUCA M.llo 3ª cl. Filippo DI GIOVANNI
Serg. magg. Armando FABI Serg. magg. Nicola STIGLIANI Serg. Antonio MAMONE
* I tredici aviatori caduti a Kindu
sono tutti insigniti di Medaglia
d’Oro al Valor Militare alla memoria.
Le relative motivazioni
sono visionabili sul sito ufficiale
della Presidenza della Repubblica
all’indirizzo www.quirinale.it.

EQUIPAGGIO “LYRA 5”
Cap. Giorgio GONELLI S.ten. Giulio GARBATI M.llo 3a cl. Nazzareno QUADRUMANI
Serg. magg. Silvestro POSSENTI Serg. Francesco PAGA Serg. Martano MARCACCI
Ten. Francesco Paolo REMOTTI

ONORI AI NOSTRI CADUTI

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