martedì 8 ottobre 2013

L'ITALIA VINCE....REBBE MA PERDE

IL CASO DEI FUCILIERI DEL S. MARCO  NEL DIRITTO INTERNAZIONALE




Premessa:
1.- Verso la metà di febbraio del 2012, due fucilieri della marina militare italiana, appartenenti al Battaglione San Marco – che denominiamo da ora in poi marò –, i quali si trovavano a bordo della nave petroliera Enrica Lexie, con il compito di proteggerla da attacchi di pirati, sparavano contro un peschereccio con a bordo undici persone che avevano confuso per dei pirati, cagionando la morte di due pescatori. Sono state fatte delle dichiarazioni secondo cui i due pescatori indiani non sono stati uccisi dai due marò, ma dalle forze di sicurezza di un’altra petroliera che si trovava nello stesso luogo. Altra dichiarazione, secondo la quale la presenza italiana rappresenta il prodotto della prassi affaristica illecita ed il tentativo di tenere lontano il made in Italy dall’India per favorire i gruppi politici locali.
Ci sono anche questioni attinenti l’esatta locazione dove è avvenuto l’incidente, se si è consumato nella acque internazionali oppure nelle acque interne dell’India. Dopo l’incidente, le autorità indiane non hanno esitato a fermare la petroliera Enrica Lexie, battente bandiera italiana, convincendola ad entrare nel porto di Kochi, dove hanno proceduto al fermo dei due marò per interrogarli e, dopo aver valutato le responsabilità su chi ha sparato, accusarli del reato di omicidio.
Le autorità italiane, a loro volta, hanno posto in risalto il fatto che l’India non aveva alcuna giurisdizione in merito all’accaduto e, quindi, che solo l’Italia aveva la esclusiva giurisdizione sui propri organi ufficiali che operavano per la sicurezza dell’Enrica Lexie e questo in base ad un principio generale storicamente e comunemente riconosciuto dall’ordinamento internazionale – e, da ultimo, sancito nell’articolo 87 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 – secondo cui nelle acque internazionali lo Stato della bandiera è il solo soggetto normalmente legittimato ad esercitare poteri coercitivi nei confronti delle navi iscritte nei propri registri.
Le autorità indiane facevano presente alle autorità italiane che spettava a loro l’esercizio della giurisdizione, in base al loro ordinamento interno. Il luogo dove è avvenuto l’incidente costituisce il punto cruciale per comprendere la natura della controversia tra i due soggetti di diritto internazionale. A parere delle autorità italiane, visto che la petroliera Enrica Lexie si trovava in alto mare al momento dell’accaduto, le Corti indiane non erano competenti nel giudicare i due marò, secondo il diritto internazionale.
Questa disputa tra i due Stati opera alcuni differenti punti: il primo, se l’esercizio di giurisdizione da parte dell’India viene inibito dalle rilevanti norme di diritto internazionale generale; il secondo, se l’inseguimento e il fermo della Enrica Lexie in acque internazionali era ammissibile; e, il terzo, se questo priva i tribunali interni indiani ad applicare la loro giurisdizione.
Il primo punto può essere risolto dando uno sguardo alle fonti standard del diritto internazionale generale come, a titolo di esempio, i trattati e la consuetudine. Classicamente lo jus cogens o, meglio, il diritto internazionale consuetudinario disciplina l’esercizio della giurisdizione secondo cui ciascuno Stato potrebbe esercitarla in ogni momento, tranne dove si presenta una norma che la vieta. Su questo punto si espresse già la Corte Permanente di Giustizia Internazionale, prima della nuova Corte Internazionale di Giustizia, la quale affrontò un simile caso nel 1927, sottolineando che lo Stato nazionale della nave, dove ci furono anche dei morti, aveva tutto il diritto di esercitare la giurisdizione perché il reato si consumò sul territorio di quello Stato, visto che la nave era, in un certo senso, considerato lembo territoriale.
Questo principio trova la sua recente espressione nello jus cogens noto come il principio del fine territoriale. Gli altri principi del territorio sono quello soggettivo, quello della nazionalità attiva, della personalità passiva, dell’universalità, della protezione e, possibilmente, quelli degli effetti dottrinali. Gli Stati, pertanto, sono liberi di limitare l’esercizio della propria giurisdizione mercé, inter alia, accordi internazionali siglati.
Gran parte degli Stati, che costituiscono la vita della società internazionale, dopo la decisione della Corte Permanente di Giustizia Internazionale inerente l’affare Lotus tra Francia e Turchia del 1927, si sono riuniti a Montego Bay nel 1982 per dar vita alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, firmandola ed invertendo la decisione dell’affare Lotus.
Si menzioni il fatto che sia il governo italiano che quello indiano hanno ratificato e firmato questo trattato del 1982, per cui sono a tutti gli effetti vincolati ad esso.
L’articolo 97 paragrafo 1 della Convenzione di Montego Bay sul Diritto del Mare enuncia che in caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell'alto mare, che implichi la responsabilità penale o disciplinare del comandante della nave ovvero di qualunque altro membro dell'equipaggio, non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari contro tali persone, se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza. Questo articolo va applicato esclusivamente ai casi di collisione ed incidenti di navigazione nelle acque internazionali, ad esclusione di altri eventuali casi. La Convenzione di Montego Bay sul Diritto del Mare inibisce l’esercizio di giurisdizione su atti che cagionano una collisione che avviene su una altra nave battente bandiera di un altro Stato, fondandosi, pertanto, sul principio oggettivo territoriale.
La norma generale inerente la giurisdizione in acque internazionali è sancita nell’articolo 92, secondo cui le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell'alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva. Purtroppo, questa norma non specifica in modo netto la giurisdizione penale su atti che avvengono su una nave e si concludono su di un’altra nave. Essa fa riferimento soltanto alla giurisdizione sulle navi e si riferisce, in larga misura, all’autorità di fermare la nave nelle acque internazionali e di condurre l’attività di polizia giudiziaria a bordo. Sempre l’articolo 92 può essere letto per comprendere l’esclusione della applicazione all’approccio dell’obiettivo territoriale della giurisdizione, facendo riferimento ai casi eccezionali. Il problema di quest’approccio sta nel fatto che, secondo la teoria oggettiva, lo Stato nazionale della nave, dove è stato commesso il crimine, non esercita la giurisdizione sulla nave in cui il crimine ha avuto il suo inizio. L’India ha sempre ritenuto di dover esercitare il proprio diritto di considerare crimini quelle attività che si manifestano o si sono manifestati, se pur parzialmente, sul suo territorio. Il contenuto della norma, presente nell’articolo 92, indica come prevenire gli Stati dall’esercizio della giurisdizione su eventi che accadono a bordo di una nave in acque internazionali e che batte la bandiera di un altro Stato. In aggiunta, va sottolineato che la norma, di cui all’articolo 97, inerente la collisione, sarebbe superflua, se l’articolo 92 fosse intesa come esclusione della competenza giurisdizionale in tutti i casi, dove il reato viene commesso a bordo di un’altra nave.
Gli estensori della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare non tennero in considerazione o, meglio, esclusero la giurisdizione solamente nei casi di collisione ed incidenti di navigazione, asserendo, in conclusione, che in altri casi la giurisdizione è consentita.
Estendere la giurisdizione indiana su reati che vengono commessi su navi che battono bandiera indiana è conforme con l’attuale prassi giurisdizionale riguardanti i reati che hanno il loro inizio nel territorio di uno Stato e sono commessi o parzialmente compiuti nel territorio di un altro Stato. Le Corti indiane andrebbero intese come aventi la giurisdizione sui due marò basata sulla mancanza di ogni esplicita inibizione della Convenzione di Montego Bay del 1982 sull’esercizio del principio dell’obiettivo territoriale ed il fatto che la prassi giurisdizionale attuale di solito sostiene l’esistenza di alcune giurisdizioni in determinati casi.
Competente a prescrivere comportamenti è, ovviamente, una questione separata dal se perseguire o meno la petroliera Enrica Lexie in acque internazionali, ed era consentito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare. Questo secondo problema concerne l’autorità di uno Stato di trattenere una nave in acque internazionali. L’articolo 111 paragrafo 1 della Convenzione di Montego Bay del 1982 enuncia che è consentito l’inseguimento di una nave straniera quando le competenti autorità dello Stato costiero abbiano fondati motivi di ritenere che essa abbia violato le leggi e i regolamenti dello Stato stesso. L’inseguimento deve iniziare quando la nave straniera o una delle sue lance si trova nelle acque interne, nelle acque arcipelagiche, nel mare territoriale, oppure nella zona contigua dello Stato che mette in atto l’inseguimento, e può continuare oltre il mare territoriale o la zona contigua solo se non e` interrotto.
L’esatta locazione della petroliera italiana Enrica Lexie, al momento dell’inseguimento iniziato – se al di là del mare territoriale –, può essere considerato come un violare i diritti nella zona dell’alto mare, in cui la nave italiana si trovava in quel momento. Nonostante tutto, alcune cose possono essere evidenziate con certezza. Le autorità indiane non avevano alcun diritto di inseguire la nave Enrica Lexie, visto che i presunti atti di omicidio sono avvenuti oltre il loro mare territoriale e, quindi, in aree non soggette alla sovranità dello Stato indiano. Contrariamente, a parere di chi scrive, essi avevano pienamente il diritto e l’autorità di fermare la nave battente bandiera italiana, solamente se l’incidente fosse accaduto nelle loro acque territoriali. A maggior ragione, visto che la nave italiana era stata trattenuta in modo inappropriata nel porto di Kochi per alcuni mesi – il suo rilascio è avvenuto agli inizi del mese di maggio –, le autorità indiane sono in dovere nel risarcirla per ogni perdita giornaliera. Ciò è sancito proprio nel paragrafo 8 dell’articolo 111, sempre della Convenzione di Montego Bay del 1982, secondo cui una nave che abbia ricevuto l’ordine di fermarsi o sia stata sottoposta al fermo fuori dal mare territoriale in circostanze che non giustificano l’esercizio del diritto di inseguimento verrà indennizzata di ogni eventuale perdita o danno conseguente a tali misure. Ma questo non ha ancora risolto il problema della giurisdizione indiana circa la detenzione dei due fucilieri della marina militare, che sono tuttora, anche se in parte liberi, in attesa della decisione dell’alta Corte indiana per il loro via dal territorio indiano.
L’ultima problematica concerne la questione inerente i tribunali indiani se sono autorizzati ovvero abbiano titolo a processare i due marò – o fucilieri della marina militare italiana – per l’accusa di omicidio, in cui si suppone pure che l’India abbia violato una serie di norme di diritto internazionale proprio attraverso il fermo della petroliera battente bandiera italiana e l’arresto dei due organi ufficiali. La risposta dell’India non può che sembrare positiva come questione di diritto. Sebbene non viene dibattuto, generalmente, il procedimento giudiziario di un individuo sarà legale anche nel momento in cui quella persona sia stata data in custodia alla Corte indiana con strumenti illeciti. La Camera straordinaria del Tribunale cambogiano, ad esempio, ha esplicitamente riconosciuto tale dottrina, mentre il Tribunale internazionale per i crimini di guerra in Ruanda ne ha già dibattuto.
Non pare esserci, di conseguenza, una parte del diritto internazionale che possa regolare il modus con cui poter esercitare la giurisdizione a causa di questo presunto arresto illegale. La presenza di questi nuclei militari a bordo si attiene anche alla risoluzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la quale invita tutti gli Stati a contribuire al contrasto della pirateria al largo delle coste somale e nell’Oceano indiano. Le autorità italiane hanno insistito sul problema che, sulla base dei principi del diritto internazionale, la giurisdizione sul caso appartiene unicamente all’ordinamento giudiziario italiano, perché i fatti sono avvenuti in un’azione antipirateria, come pure quest’azione è stata compiuta in alto mare su una nave battente bandiera italiana e anche per il fatto che ne sono stati protagonisti militari italiani, organi ufficiali dello Stato italiano.
L’incidente avvenuto in acque internazionali tra la petroliera battente bandiera italiana ed il peschereccio indiano viene dipinto come una specie di giallo internazionale.

2.- Nel precedente paragrafo è stata affrontato l’evolversi della disputa internazionale tra i due soggetti di diritto internazionale – India c. Italia – inerente la posizione dei due fucilieri della marina italiana, i quali si trovavano in quel momento sulla Enrica Lexie e venivano accusati di aver sparato ai due pescatori indiani, che erano a bordo del peschereccio, scambiati per pirati. Questa controversia tra l’Italia e l’India ha come nodo della discussione il problema della giurisdizione o, meglio, quali dei due Paesi ha il diritto di esercitarla e, quindi, gestire l’incidente. Tanto è vero che parte di questa controversia è basata sul disaccordo inerente il luogo in cui la Enrica Lexie si trovava ed il peschereccio nel momento in cui ebbe luogo quel triste incidente. Le autorità indiane hanno sempre asserito che le due imbarcazioni, nel momento dell’incidente, si trovavano nelle loro acque territoriali; al contrario, le autorità italiane hanno sostenuto fortemente che l’incidente si è consumato nelle acque internazionali.
Entrambi gli Stati sono parti della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982, che codifica gran parte del diritto internazionale contemporaneo, che affronta gli eventi che avvengono in mare e copre una serie di questioni centrali della controversia tra i due Stati. Si prenda in considerazione, a titolo di esempio, l’articolo 111, già citato prima, che affronta le condizioni in cui è consentito ad uno Stato procedere al fermo di un’imbarcazione di un altro Stato in alto mare. Direttamente implicato in questa vicenda è l’articolo 92 paragrafo 1, sempre della Convenzione di Montego Bay del 1982, di cui si è in precedenza delineato, presumendo che l’applicazione dell’articolo 92 porti la controversia nell’ambito di tale trattato ad innescare il provvedimento della disputa. L’articolo 287 dove al paragrafo 1 sottolinea che al momento della firma, della ratifica o dell’adesione alla presente convenzione o in un qualunque altro momento successivo, uno Stato e` libero di scegliere, mediante una dichiarazione scritta, uno o più dei seguenti mezzi per la soluzione delle controversie relative all’interpretazione o all’applicazione della presente convenzione: a) il Tribunale internazionale per il diritto del mare costituito conformemente all’Allegato VI; b) la Corte internazionale di giustizia; c) un tribunale arbitrale costituito conformemente all’allegato VII; d) un tribunale arbitrale speciale costituito conformemente all’allegato VIII, per una o più delle categorie di controversie ivi specificate, e al paragrafo 5 che se le parti in controversia non hanno accettato la stessa procedura per la soluzione della controversia, questa può essere sottoposta soltanto all’arbitrato conformemente all’allegato VII, salvo diverso accordo tra le parti.
Conseguentemente, in assenza di un accordo o di una dichiarazione, la controversia sull’applicazione e l’interpretazione dell’articolo 92 sarà soggetta solamente all’arbitrato, come sancito nell’Allegato VII della Convenzione di Montego Bay.
Le autorità italiane hanno presentato tale dichiarazione attestante la ragione che, in attuazione dell’articolo 287 della Convenzione di Montego Bay, per la soluzione della controversia concernente l’interpretazione o l’applicazione della Convenzione sul diritto del mare e dell’Accordo adottato nel mese di luglio del 1994 relativa all’attuazione della Parte XI, ha scelto sia la Corte Internazionale di Giustizia sia il Tribunale Internazionale del Mare, senza specificare la precedenza o dell’uno o dell’altro. Attraverso la presentazione di questa dichiarazione, in base all’articolo 287, le autorità italiane hanno voluto riaffermare la propria fiducia nei confronti degli organismi giudiziari internazionali. Attenendosi al paragrafo 4 dell’articolo 287, secondo cui se le parti di una controversia hanno accettato la stessa procedura per la soluzione della controversia, questa può essere sottoposta soltanto a quella procedura, salvo diverso accordo tra le parti, le autorità italiane hanno voluto scegliere la stessa procedura alla pari di altri Stati che hanno scelto questi due organismi di carattere giudiziario internazionale.
Le autorità indiane, al contrario, non hanno seguito quanto enunciato nell’articolo 287, cioè a dire aver deposto la dichiarazione, ma ha presentato una dichiarazione attenendosi all’articolo 36 paragrafo 2 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, in base al quale gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti il medesimo obbligo, la giurisdizione della Corte su tutte le controversie giuridiche concernenti: l'interpretazione di un trattato; qualsiasi questione di diritto internazionale; l'esistenza di qualsiasi fatto che, se accertato, costituirebbe la violazione di un obbligo internazionale; la natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale, accettando in modo vincolante la giurisdizione di quell’organismo internazionale.
A parità di condizioni, questa dichiarazione solitamente sarebbe in grado di determinare la giurisdizione con la Corte Internazionale di Giustizia, ciò si viene a realizzare mediante la lettura della dichiarazione italiana, di cui sopra si è voluto evidenziare, secondo la Convenzione di Montego Bay, assieme con quella indiana ai sensi dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia. Entrambi gli Stati hanno manifestato la volontà di affidarsi alla giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia. La decisione dell’India di sottoporre il caso alla giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia sorge per la ragione che vi sono alcune eccezioni di rilevanza particolare come le controversie nei confronti delle quali le Parti coinvolte ad una disputa hanno accordato o, meglio, accorderanno di ricorrere a qualche altro metodo di soluzione o le controversie nei confronti delle quali un’altra Parte alla disputa ha accettato la giurisdizione vincolante della Corte Internazionale di Giustizia esclusivamente per o in relazione ai fini di tale controversia ovvero dove l’accettazione al vincolo giurisdizionale della Corte Internazionale di Giustizia sul comportamento di una Parte alla controversia è stata depositata o ratificata, meno di dodici mesi prima della presentazione della domanda davanti alla Corte Internazionale Giustizia, e, infine, le controversie riguardanti l’interpretazione e l’attuazione di un trattato multilaterale, a meno che tutte le Parti al trattato risultano anche essere Parti al caso presentato già alla Corte Internazionale di Giustizia o al governo indiano specialmente se accettano la giurisdizione.
Le autorità indiane, nella loro dichiarazione depositata presso la cancelleria della Corte Internazionale di Giustizia, hanno escluso in modo netto la giurisdizione vincolante davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per i casi mediante l’interpretazione dei trattati multilaterali, a meno che tutte le Parti al trattato sono coinvolti nel caso. La Convenzione di Montego Bay è un vero e proprio trattato multilaterale e non ogni Parte ad esso sarebbe Parte del caso della Corte Internazionale di Giustizia in merito alla controversia tra Italia e India. Se queste condizioni reggono ed il caso si poggia sull’articolo 92, allora la Convenzione di Montego Bay disciplinerà la controversia e l’Allegato VII si applicherà richiedendo a questo punto l’arbitrato.
Esiste anche la possibilità di adire la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia, inquadrando la vicenda nel campo del diritto internazionale generale. L’articolo 92, come è stato già accennato, fa riferimento alla giurisdizione sulla nave che si trova in alto mare, sebbene è parte, in un certo senso, del territorio dello Stato a cui appartiene, ma non si riferisce ai principi per determinare il luogo di un’azione ai fini di stabilire la giurisdizione penale. Questa problematica della giurisdizione si riferisce ai principi del diritto internazionale pubblico e venne già deciso dall’allora Corte Permanente di Giustizia Internazionale in uno dei noti casi dell’inizio del secolo scorso, quando non era ancora entrata nel vivo la Convenzione di Montego Bay: l’affare Lotus.
L’accettazione dell’India della giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia sarebbe valida se la questione legale fosse delineata come andare nella giusta competenza degli Stati di legiferare e far rispettare le leggi. L’India, dunque, sarebbe soggetta alla giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia nel caso in cui l’Italia dovesse depositare la propria domanda alla cancelleria della Corte. Questa formulazione della questione giuridica evita la diretta applicazione della Convenzione di Montego Bay del 1982 e rende la richiesta dell’arbitrato previsto nell’Allegato VII non applicabile. È d’uopo evidenziare che l’India non accetta giurisdizioni vincolanti, in cui un altro Stato coinvolto, nel caso abbia accettato solo di recente la giurisdizione obbligatoria della Corte Internazionale di Giustizia. Pertanto, l’Italia non ha necessità di accettare la giurisdizione obbligatoria e di depositare il caso presso la Corte Internazionale di Giustizia.
In poche parole, ci sono con molte probabilità due fori internazionali che possono dibattere la controversia tra lo Stato italiano e quello indiano in merito alla questione dei due fucilieri della marina italiana, accusati di aver sparato ed ucciso i due pescatori indiani, questi sono il Tribunale Internazionale del Mare e la Corte Internazionale di Giustizia.
L’opzione di portare la controversia davanti al Tribunale Internazionale del Mare, in base all’articolo 287 e la Parte VII della Convenzione di Montego Bay pare essere la più lineare. Si rammenti che, come già posto in risalto prima, entrambi gli Stati sono parti alla Convenzione di Montego Bay e, dunque, l’incidente ingloba le azioni che sono accadute in mare. Ogni genere di decisione sarebbe strettamente circoscritta all’interpretazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare – dovuta alla competenza del meccanismo di risoluzione della controversia – e qualunque sia il trattato di principi giurisdizionali possa pretendere di creare tra gli Stati parti della Convenzione di Montego Bay.
L’opzione di presentare l’affaire dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia è considerata maggiormente conveniente. Mentre si dibatte specificamente del luogo degli eventi in mare per il fine di carattere giurisdizionale, come il caso potrebbe essere potenzialmente importante per il modo di intendere generalmente la giurisdizione extraterritoriale degli Stati. La Corte Internazionale di Giustizia avrebbe l’opportunità di elaborare, attraverso i principi della giurisdizione territoriale, stabiliti nell’affare Lotus, un caso datato nell’anno 1927, e che in modo celere sta lasciando un segno nel mondo delle relazioni internazionali di oggi. La Corte Internazionale di Giustizia, come una vera e propria istituzione, ha un gran fine e, forse, terrà presente le conseguenze della propria decisione su altri settori del diritto, rispetto ad un mero tribunale che non farà, anche se avrà avuto modo di focalizzare solamente intorno al diritto del mare.
In ogni modo, i due protagonisti sulla scena internazionale, quali l’India e l’Italia, per poter portare al temine il loro disaccordo, potrebbero richiedere la mediazione del Segretario Generale delle Nazioni Unite ovvero sottoporre la controversia ad un unico arbitrato oppure risolverla diplomaticamente anche se, visto il discorso coerente della vicenda, è poco probabile che la controversia sia risolta con lo strumento della diplomazia.

3.- Quale definizione è possibile dare al termine pirateria? Essa rappresenta un crimine che si concretizza in acque internazionali, nel senso che non si consuma nelle acque interne che viene denominato mare territoriale. In sostanza, la pirateria è un vero e proprio atto criminale internazionale iure gentium, rispetto a qualsiasi insieme di atti denominati pirateria dalle norme interne di un particolare Stato. In questo contesto si evidenziano due necessari criteri per un atto da essere considerato pirateria: gli eventi devono coinvolgere almeno due navi e che gli aspiranti di azioni piratesche lo abbiano fatto per fini privati. Quest’ultimo criterio, ad esempio, non considera quegli atti che vengono compiuti per scopi di carattere politico.
Ma quali sono i metodi disponibili per perseguire e punire coloro che compiono atti di pirateria? Il metodo principale consiste nel procedimento di arresto e di processo ai presunti pirati da parte delle autorità nazionali, una soluzione ben nota per essere di sovente inconsistente sebbene dipeso al variare di leggi e prassi nazionali. Vi è da sottolineare che solamente le navi da guerra, come pure quelle navi identificate ed autorizzate dalle autorità nazionali, hanno la totale approvazione a stanare il fenomeno della pirateria in alto mare. Le navi private o soggetti privati non hanno alcuna autorizzazione o permesso di contrastare i pirati. Il diritto di catturare i pirati nelle acque internazionali include il diritto circoscritto di fermare le navi che navigano sotto la bandiera di uno Stato diverso rispetto a quelle navi da guerra che procedono al fermo. Nel caso di quei pirati al di fuori delle costa della Somalia, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato, mercé la risoluzione n.1851 del 2008, gli Stati a contrastare, con azioni oppressive, la pirateria nel mare territoriale della Somalia e, in determinate circostanze, perseguire i pirati che si sono rifugiati all’interno del territorio somalo ovvero presenti sul suolo della Somalia.
Ciò ha portato il dibattito sui metodi leciti posti a disposizione ad imbarcazioni private di proteggersi dai attacchi pirateschi. Riferendosi al lavoro dell’Organizzazione Internazionale Marittima, è possibile puntualizzare che è permesso avere la sicurezza armata su navi commerciali con il compito di respingere eventuali attacchi nocivi perpetrati dai pirati. Si badi bene che questo personale armato viene limitato al solo compito di difendere la nave privata ovvero commerciale e non a perseguire i pirati. La Francia, a titolo di esempio, usa i propri militari per fornire solo la sicurezza, mentre la Spagna utilizza corpi privati e, invece, l’Italia permette entrambi almeno legislativamente.
Questo è un incidente, già antecedentemente affrontato nei paragrafi precedenti di questo scritto, in cui sono coinvolti i due fucilieri della Marina militare italiana, che erano presenti sulla petroliera Enrica Lexie, da dove fecero fuoco contro il peschereccio, uccidendo due pescatori di nazionalità indiana, che furono erroneamente scambiati per dei veri e propri pirati. Le polemiche su se o meno l’India possa giustamente porre in essere la propria giurisdizione sul caso sotto la guida dei principi di diritto internazionale o gli eventi accaduti nelle acque internazionali e quei fatti, sono presenti nella controversia; pertanto, l’incidente avvenuto poteva essere evitato se la petroliera battente bandiera italiana – Enrica Lexie – non fosse stata deviata verso le acque territoriali indiane cioè verso il porto di Kochi. La ragione data per la nave mercantile italiana, che si è portata verso il porto della città di Kochi, si basava sul fatto che coloro che avevano sparato, cioè a dire i due marò, dovevano procedere ad identificare i due individui sospettati di essere pirati. Questo fu solo un pretesto che permise alle autorità indiane di accogliere nelle proprie acque territoriali la petroliera italiana e procedere al fermo dei due marò. Se la nave italiana non si fosse diretta verso il porto di Kochi, non ci sarebbe stato alcun arresto.
In merito alla questione della giurisdizione inerente gli eventi accaduti in acque internazionali, ci sono all’interno della Convenzione di Montego Bay tre articoli che regolano proprio il tema della giurisdizione, tali articoli sono il 97, il 94 e il 92. Degli articoli 97 e 92, si è già ampiamente discusso nei precedenti paragrafi.
In modo rapido, si è constatato che, mentre la disposizione dell’articolo 97 fa riferimento a qualsiasi altro incidente della navigazione, il vero significato di questa frase è quello di comprendere altre collisioni che possono esserci tra due navi. L’articolo 94, al contrario, si riferisce agli obblighi dello Stato di bandiera, tuttavia, quest’articolo si occupa poco della pur sufficienza assistenza al caso.
Circa l’articolo 92 paragrafo 1, in aggiunta a quello detto sopra, potrebbe essere un punto fondamentale al fine di far valere l’esclusiva giurisdizione italiana sugli eventi della petroliera Enrica Lexie. Si potrebbe, dunque, asserire che gli spari abbiano avuto luogo sull’imbarcazione italiana e sul peschereccio indiano, determinando in tal modo la giurisdizione per entrambi gli Stati, secondo l’articolo 92.
L’argomento più solido per la giurisdizione esclusiva italiana sui due fucilieri della marina italiana, accusati di aver cagionato la morte di due membri del peschereccio indiano, era fondato o, meglio, basato sull’idea dell’immunità funzionale.
Si è evidenziato che i due marò appartengono alle forze militari dello Stato italiano e che la sua struttura legislativa a favore della sicurezza privata non è stata ancora concretizzata. In particolare, si pone in chiaro che sia l’ordinamento interno italiano sia le varie risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prevedono l’impiego di guardie armate per respingere i pirati. Come agenti della politica nazionale ed internazionale, gli atti compiuti dalle forze militari italiane sarebbero attribuibili all’Italia e non individualmente ai militari. Ciò escluderebbe i due marò dall’essere processati e condannati in India. Questo genere di immunità funzionale ha la sua origine nel diritto internazionale cogente già nel lontano XIX secolo.

4.- La vicenda dei due marinai italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, quali organi in divisa al servizio dello Stato, con l’accusa di aver ucciso dalla petroliera Enrica Lexie battente bandiera italiana due pescatori indiani confondendoli per pirati, al largo dello Stato di Kerala, ruota attorno alla figura dell’immunità funzionale nell’ambito del diritto internazionale. In base ad un obsoleto principio di diritto internazionale classico, un militare che agisce nell’esercizio delle proprie funzioni, e aldilà del territorio del Stato di appartenenza, non ne risponde in prima persona, ma la sua azione od omissione sarà imputata allo Stato di provenienza. Pertanto, un eventuale illecito non va imputato a tale militare personalmente nell’ambito del diritto penale dello Stato estero, ma allo Stato di provenienza nell’ambito del diritto internazionale. Tale immunità è definita funzionale e, nel caso di specie, l’India non l’ha riconosciuta all’Italia ed ai due marò, anzi, lo Stato indiano ha deciso di procedere mercé un procedimento interno, con norme di diritto penale indiano.
Cosa si deve intendere per immunità funzionale? Essa va intesa quale inibizione sostanziale all’esercizio della giurisdizione, nel senso che il comportamento tenuto dai due marò, quali organi statali, è un atto dello Stato italiano e, pertanto, non riferibile ai due fucilieri italiani che l’hanno materialmente posto in essere.
Mediante questa immunità, si garantisce la sovranità dello Stato, applicando il principio di diritto internazionale par in parem non habet iurisdictionem, nel senso che non si può delineare il fatto che uno Stato non ha giurisdizione su un altro Stato. A mio parere, l’autore del fatto illecito cade sullo Stato italiano e non sui due marò, nel senso che l’immunità funzionale si realizza nell’esenzione dalla giurisdizione dello Stato straniero dell’individuo-organo che ne beneficia, ma che non si connette all’inviolabilità personale dell’organo e, pertanto, non comporta l’immunità dalle misure coercitive come, ad esempio, l’arresto oppure la detenzione preventiva, sino a quando non si giunga ad essere certi che l’individuo agiva in qualità di organo dello Stato.
La norma che prevede l’istituto dell’immunità funzionale è una norma di carattere consuetudinario, e la consuetudine, insieme agli accordi di carattere convenzionale ed agli atti unilaterali de jure riconosciuti, costituisce la fonte primaria delle norme nel diritto internazionale. Si è, inoltre, parlato di incertezza riguardo al luogo dove è avvenuta la tragica morte dei due pescatori, se in acque internazionali o meno. Dal punto di vista giuridico, muterebbe in ogni caso poco. L’immunità funzionale, infatti, deve essere in ogni modo riconosciuta.
La  prassi secolare ed antichissima che ha portato al principio di cui sopra è conclamata a tal punto da far pensare che l’atteggiamento indiano poco abbia a che fare con il diritto e molto con la politica, in particolare con quella interna dell’India. Quello che voglio in questo paragrafo asserire non è certo l’innocenza dei due fucilieri della marina italiana, ma un principio di diritto, secondo il quale un’azione od omissione, commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, vanno necessariamente, se non obbligatoriamente, giudicate nella giurisdizione dello Stato di provenienza. L’immunità funzionale per i membri delle forze armate, come istituto, si può reperire nei documenti diplomatici del XIX secolo. Un primo esempio è reperibile in un documento diplomatico dove si evidenzia la rivendicazione dell’immunità funzionale nell’affare McLeod del 1841.
McLeod, un ufficiale delle forze britanniche, attaccò assieme ai suoi subalterni, una nave, ormeggiata nello Stato di New York, cagionando la morte di uno dei membri dell’equipaggio della nave Caroline, giacché eseguivano ordini provenienti dal governo inglese di procedere a colpirla e distruggerla. Durante la sua visita negli Stati Uniti per ragioni non correlate alla sua mansione di ufficiale del Regno Unito, venne sottoposto agli arresti e processato a New York, per omicidio e per incendio alla nave Caroline. Alla notizia dell’arresto di McLeod, il governo inglese manifestò un atto di accusa nei riguardi del governo statunitense, asserendo che l’attacco alla Caroline costituiva un atto ufficiale e, quindi, ogni responsabilità non ricadeva su McLeod, ma solo sul governo del Regno Unito, con conseguenza del suo rilascio e del non procedimento processuale. I due soggetti di diritto internazionale e gli Stati Uniti e la Gran Bretagna risolsero la controversia, giungendo in modo concorde a ritenere che un individuo, facente parte di una forza pubblica ed agendo sotto l’autorità del proprio governo, non va considerato responsabile delle azioni compiute. È un principio di diritto pubblico sanzionato dagli usi di tutte le nazioni civili e che il governo statunitense non ha espresso alcuna contrarietà.
Malgrado ciò, McLeod venne ugualmente processato nello Stato di New York con l’accusa di omicidio. Mentre il ramo esecutivo del governo federale statunitense sembrava aver concesso al McLeod il beneficio dell’immunità funzionale, ciò non fu condiviso nel sentimento federale nello stesso tempo con alcuni distinguo. In risposta a questa controversia il noto senatore statunitense John Caldwell Calhoun dichiarò al Senato degli Stati Uniti che ora, non possono esserci dubbi che la simile norma, quando applicata agli individui, e che sia il capitale sia gli agenti o, se volete, gli strumenti sono da considerare responsabili nell’ambito penale, direttamente il contrario della norma su cui venne fatta per il rilascio di McLeod ( … ).
Si supponga, inoltre, che le autorità inglesi od ogni altra autorità di un altro Stato, contemplando la guerra, invii degli emissari a far saltare la fortificazione eretta, ad alto prezzo, per la difesa del nostro commercio, sarebbe la produzione dei più autentici documenti firmati da tutte le autorità del governo inglese, renderlo una transazione pubblica e dispensare i cattivi da ogni responsabilità dalle nostre leggi e dal nostro ordinamento giudiziario? O desidererebbero che il governo presenti una richiesta per il loro immediato rilascio? Questa dichiarazione fatta dal senatore J.C. Calhoun dovrebbe rendere chiaro il fatto che, in combinazione con il processo di Alexander McLeod, il principio inerente l’immunità funzionale per gli ordini militari non era saldamente stabilito nel 1841. È vero che la dichiarazione del governo federale degli Stati Uniti, in quanto responsabile della politica estera, sopporta un peso maggiore sul tema rispetto a quelli del solo senatore e dello Stato di New York.
Una attuale controversia che coinvolge la rivendicazione dell’immunità funzionale a favore di organi parti di uno Stato concerne l’affare Rainbow Warrior del 1980.
Questa controversia coinvolge due agenti francesi, violando la sovranità territoriale della Nuova Zelanda, avevano posto in essere un attentato contro l’imbarcazione di Greenpeace, appunto la Rainbow Warrior, ancorata nel porto di Auckland ed utilizzata per protestare contro i test nucleari francesi nel sottosuolo marino. Dopo aver distrutto la nave, i due agenti dei servizi segreti francesi vennero tratti in arresto e accusati di aver cagionato, a bordo della Rainbow Warrior, la morte di un giornalista olandese.
La controversia inerente la questione tra i due soggetti di diritto internazionale, cioè a dire Francia e Nuova Zelanda, venne affidata al Segretario Generale delle Nazioni Unite per raggiungere una soluzione pacifica. Una delle problematiche che sorse in questa controversia dibattuta fu la pretesa francese secondo cui i suoi agenti andavano rilasciati dalla loro detenzione in quanto beneficiari dell’immunità funzionale.
La Nuova Zelanda, al contrario, manifestò la propria obiezione alla richiesta del governo di Parigi e sostenne che coloro che agiscono in uniforme per conto di organi ufficiali superiori e che emettono ordini non sono esenti dalle responsabilità di azioni penali. L’ordine superiore non viene considerato una difesa, secondo l’ordinamento interno della Nuova Zelanda, né una difesa nei sistemi legali di gran parte degli Stati. Certamente non è considerato una difesa sul piano del diritto internazionale come venne chiaramente determinato durante il processo di Norimberga e in quello post Norimberga.
Purtroppo, la questione riguardante l’immunità funzionale non ebbe alcuna soluzione o direttamente affrontata dalla decisione arbitrale. Il punto fondamentale in questo caso sta nel fatto che l’esistenza dell’immunità funzionale, teoricamente riconosciuta se non ignorata nel caso McLeod, venne respinta da una delle Parti – il riferimento viene fatto alla Nuova Zelanda – alla controversia in modo categorico. Gli usi del passato di tutte le nazioni civilizzate di usare l’immunità agli atti ufficiali di questo genere sembra essersi eroso nel corso degli anni. Non meno di tutti a causa degli sviluppi nel periodo del secondo conflitto mondiale.
Si è in presenza di un’interessante distinzione tra l’affare inerente McLeod e quella riguardante la Rainbow Warrior. L’imputato McLeod era un ufficiale in uniforme nel momento in cui il suo presunto crimine veniva consumato, mentre gli agenti francesi erano organi dei servizi segreti. Si potrebbe dire che eseguire operazioni militari alla luce del sole è diverso dalle operazioni che avvengono sottocopertura.
Un recente esempio è la vicenda inerente la nave Mavi Marmara, battente bandiera turca, dove forze militari dello Stato di Israele la occuparono.
Il caso concerneva l’incidente dell’imbarcazione turca che si consumò nel 2010, quando una flottiglia di imbarcazione partirono dalla Turchia in rotta verso la striscia di Gaza per portare aiuti umanitari e nel tentativo di rompere il blocco israeliano. La Mavi Marmara venne intercettata da una nave da guerra battente bandiera dello Stato di Israele. Nel momento in cui la flottiglia respinse la richiesta delle autorità israeliane a tornare indietro, alcuni militari delle forze armate di Israele salirono a bordo di alcune navi tra cui la Mavi Marmara, cagionando la morte di nove attivisti. L’impiego della coercizione armata o, meglio, l’uso della forza, durante quella intercettazione, venne considerato essere irragionevole ed eccessiva dalla Commis-sione di esperti voluta dalle Nazioni Unite.
Di recente il governo turco ha presentato atti di accusa nei confronti di quattro ufficiali di alto grado delle forze armate israeliane per le loro responsabilità circa la morte degli attivisti.
Questi alti ufficiali stavano eseguendo gli ordini che venivano impartiti dal governo di Israele nel porre in essere i raid contro la flottiglia che man mano si avvicinava a Gaza. Le autorità turche non hanno ritenuto che questi organi ufficiali che indossavano un’uniforme e per di più di alto grado militare potevano appellarsi al tipo di immunità funzionale dell’affare McLeod per i loro presunti crimini. Il fatto stesso che la Turchia sia solo disposta a mostrare le accuse è indicativo dello status dell’immunità funzionale per il personale militare che indossa una divisa, che ha commesso crimini nel corso dello svolgimento delle loro funzioni.
Questi casi dimostrano che le fondamenta per affermare una norma generale del diritto internazionale, che determini l’istituto dell’immunità funzionale per coloro che agiscono in uniforme militare, sono in un certo senso barcollanti.
Uno dei più recenti casi, pur asserendo la norma, non fornisce un esempio della sua attuazione. Dal post secondo conflitto mondiale e dagli anni ottanta, si potrebbe affermare che l’immunità funzionale per gli atti ufficiali simili ai crimini non esistevano. L’attuale prassi, sino a poco tempo fa, sembra seguire il percorso disposto dalla prassi moderna e non dalla norma anacronistica approvata nel 1840 dai governi statunitense e britannico.
Il rifiuto di una norma generale, la quale si riferisce all’immunità funzionale per il personale militare nell’esercizio delle loro ufficiali funzioni, cagionerà una serie di conseguenze nella controversia tra Italia ed India, anzi direi che le sta già causando. Ciò sta ad indicare, in particolare, che la rivendicazione dell’Italia all’esercizio della giurisdizione esclusiva sui due fucilieri della marina militare è corretta.

5.- Dopo due anni di discussioni il governo ha dato il via libera all'impiego dei militari e di personale di compagnie private a bordo delle navi italiane per fronteggiare il pericolo dei pirati. Individui che indossano una divisa ed armati che si trovano a bordo delle navi che battono bandiera italiana, in base all’art. 5 della Legge n.130/2011, adottata dal Parlamento anche per eseguire le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per combattere la pirateria, possono far parte di due categorie: agenti militari, forniti dalla Difesa, il cui impiego è a carico dell’armatore; team di guardie giurate, sempre a carico dell’armatore. Per i team militari è stato adottato dal Ministro della Difesa il Decreto di attuazione della Legge 130. Per quelli privati, il Decreto, la cui adozione spetta al Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro della Difesa e di quello delle Infrastrutture e Trasporti, deve essere ancora emanato.
È d’uopo determinare dei punti fermi che possano essere utili per azioni future ed anche per interventi correttivi/integrativi della legislazione italiana in vigore.
Va evidenziato che i gruppi armati, che si trovano a bordo dell’armamento privato, sono da considerare di grande utilità per la protezione contro gli attacchi di gruppi di pirati. L’Oceano indiano è gremito dai navi da guerra che danno la caccia ad imbarcazioni di pirati: la missione Atalanta (a guida Unione Europea) e Ocean Shield (a guida Nato) e la Combined Task Force (CTF) 151, una coalizione di volenterosi con presenza determinante statunitense, nonché un numero non indifferente di altre flotte militari, le cui bandiere mercantili sono minacciate dai pirati.
Tutto questo spiegamento di forze, però, non ha posto fine agli attacchi, a causa del fatto che l’area da sorvegliare è grande ed i pirati operano con piccole imbarcazioni veloci, distaccati da unità camuffate per lo più da navi da pesca (nave madre). Pertanto, i team armati su navi private svolgono un’azione complementare a quella delle navi da guerra ed ormai sono imbarcati su molte bandiere (il Regno Unito ha recentemente ammesso la possibilità di utilizzare i contractor).
Si rammenti che è lo Stato di bandiera il solo responsabile dell’esecuzione ed applicazione delle norme internazionali e, pertanto, il regime di sicurezza a bordo è, in sostanza, disciplinato e regolato dalla legislazione interna rispettosa delle norme internazionali vigenti in materia.
Visto che ogni Stato di bandiera, essendo titolare dell’esclusiva giurisdizione a bordo sulle attività, disciplini la legittima difesa attraverso le proprie norme interne, che possono diversificare da Stato a Stato.
Nel nostro ordinamento circa il reato di pirateria, esistono degli articoli presenti nel codice della navigazione, come l’articolo 1135 e 1136, dove è d’uopo analizzare, in assenza di norme interne già vigenti, che genere di mezzi di difesa debbano essere adottati per contrastare i pirati diretti verso per le navi battenti bandiera dello Stato italiano.
Per garantire e tenere in sicurezza le proprie navi, gli armatori hanno presentato la richiesta alle autorità italiane con lo scopo di porre in essere norme che diano la possibilità di disporre di personale armato a bordo – forze armate o contractors – per difendersi e tutelarsi dalla pirateria.
Tra le due figure, quella di organi ufficiali che indossano una divisa e sono al servizio dello Stato e i contractor, vige una differenza sostanziale, che va analizzata in modo dettagliata.
Circa l’uso di militari a bordo – come nel caso dei fucilieri della marina militare italiana che si trovavano a bordo del mercantile Enrica Lexie – lo Stato italiano, nell’esercizio della propria sovranità, tra cui viene inclusa la protezione dei cittadini italiani e dei loro beni, può decidere, senza problemi di contrasto con le norme internazionali, di distaccare organi militari a bordo delle navi che transitano nelle aree di mare soggette ad attacchi di pirati. I due fucilieri della marina militare italiana stavano svolgendo una mansione di carattere protettivo nell’ambito di una missione internazionale contro la pirateria attenendosi alle risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a raccomandazioni IMO e alla legge italiana.
Al riguardo vige una prassi già seguita da alcuni Stati, come la Francia, la Gran Bretagna, Belgio e adottata anche dall’UE nell’ambito della missione Atalanta per le navi che trasportino carichi del World Food Program. A bordo di tali navi viene accettato che vengano imbarcati team di militari armati destinati alla loro protezione, previo ovviamente il consenso dello Stato di bandiera.
Sebbene i militari sono organi dello Stato, come il caso dei due marò, assimilabili ai corpi di truppa che operano all’estero, ogni loro azione e l’eventuale impiego non lecito dell’azione coercitiva armata comporterà la totale responsabilità diretta dello Stato italiano. Inoltre, va menzionato che tutte le norme internazionali, come la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, prevedono diritti ed obblighi nei riguardi degli Stati e non fanno alcun riferimento ai soggetti di diritto interno come gli armatori.
Per quanto concernono i contractor, va sottolineato che non vanno confusi con i veri e propri mercenari, quest’ultimi vengono definiti, dal punto di vista del diritto internazionale, come individui non cittadini di alcuno Stato, che sono reclutati per lottare ed essere partecipi al conflitto con fini lucrativi. Pertanto i contractor non hanno le stesse caratteristiche dei mercenari nel senso che possono avere la cittadinanza dello Stato di bandiera, dovrebbero svolgere il loro lavoro senza fini di lucro e non devono essere partecipi ad un conflitto bellico, ma unicamente difendere ed ostacolare l’arrembaggio della nave. Ciò sta ad indicare che il ruolo dei contractor è quello di tutelare e difendere l’integrità della nave e non quello di divenire attori in un conflitto armato. L’art. 105 della Convenzione di Montego Bay del 1982 autorizza ogni Stato ad adottare misure militari contro i pirati, mentre non determina nulla per le guardie private o c.d. contractor, che sono considerate dei civili.
Circa ciascuna azione e l’eventuale uso non lecito della coercizione armata da parte dei contractor, la responsabilità dello Stato di bandiera esisterà solo nel momento in cui si dimostri – in base a quanto viene stabilito dal diritto internazionale per gli atti illeciti commessi da privati – che esso ha omesso di prevenire o non ha punito a livello di diritto interno le condotte non legali. La responsabilità degli atti dei contractor ricadrebbe, dunque, sulle compagnie armatoriali, come del resto su di esse ricadrebbe anche la responsabilità nei confronti delle famiglie dei contractor eventuali vittime di uno scontro con i pirati. Il comandante della nave potrebbe non avere tentato di evitare l’abbordaggio, per esempio non cambiando rotta, o non ponendo in essere tutte le manovre possibili o non usando tutte le moderne tecnologie atte ad evitare l’attacco.

Note
1 Un mercantile straniero e una petroliera italiana, l’Enrica Lexie, che, temendo un attacco di pirati attiva i militari che sono a bordo, in acque che possono essere pericolose, e due di loro  sparano. Sono le 16:30 del 15 febbraio. Colpi che non vogliono uccidere ma solo allontanare, intimidire, respingere. Colpi che, purtroppo, finiscono dentro il corpo di due uomini che erano a bordo del peschereccio, il St. Antony,  partito il 7 febbraio per la pesca del tonno. Muore Ajesh  che  era al timone, colpito in pieno viso e Velentin che alzandosi e’ stato ucciso con un colpo al petto. Gli altri pescatori, 9 uomini, erano sottocoperta, riposavano perché la pesca avviene di notte.
2 La petroliera Enrica Lexie è salpata alle 23 ora locali (19.30 in Italia) del 5 maggio 2012, dopo aver ottenuto gli ultimi permessi dalle autorità doganali e portuali di Kochi. Lo ha reso noto il direttore generale della compagnia armatrice Pio Schiano. Questa mattina l'Alta corte di Kochi aveva rilasciato l'ultima autorizzazione necessaria a liberare la nave a bordo della quale si trovavano i due marò detenuti nel Kerala con l'accusa di aver ucciso, il 15 febbraio scorso, due pescatori indiani scambiati per pirati. La nave, con 24 uomini d'equipaggio e quattro militari dell'unità anti-pirateria, ha fatto rotta verso lo Sri Lanka. In La Repubblica, 05/05/2012
3 L. Salamone, Polizia marittima e lotta al traffico di stupefacenti via mare alla luce della vigente normativa nazionale ed internazionale, in sez. Diritto internazionale, Diritto.it, 2004.
4 G. Paccione, La questione dei due marò detenuti in India nel diritto internazionale, in La Gazzetta italo-brasiliana, Braunes, edizione giugno 2012, p. 44-45.
5 Si pensi che in fondo, nel 1927, la Corte Permanente di Giustizia Internazionale, nel famoso caso Lotus, vapore francese, affrontò la questione su una collisione tra questo vapore e quello turco, a seguito della quale era venuto l’affondamento del vapore turco e la morte di 8 marinai turchi. Si pose un problema di giurisdizione. Cosa era accaduto? Il comandante del vapore turco e l’ufficiale di guardia della Lotus erano stati condannati ad una pena detentiva da parte del tribunale turco. Il governo francese contestò questa soluzione asserendo, per quel che concerneva l’ufficiale francese, la competenza esclusiva dell’ordinamento giuridico francese e, quindi, dello Stato della bandiera, in quanto, trovandosi in alto mare si negava tale competenza al tribunale turco. Se fosse stata nelle acque territoriali turche nulla quaestio perché in effetti c’era stata una rilevanza esterna (è noto che quanto a rilevanza esterna subentra la competenza e la giurisdizione dello Stato delle acque territoriali o costiero). In questo caso, ci si trovava in alto mare per cui non era possibile sottrarre la giurisdizione alla nave cui appartiene l’ufficiale in questione. G. Paccione, Il regime giuridico dell’alto mare nel diritto internazionale, in Diritto.net; Affare Lotus, in pubblicazione della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, serie A – n.10, 7 settembre 1927.
6 La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o UNCLOS acronimo del nome in inglese United Nations Convention on the Law of the Sea,, èun trattato internazionale che definisci i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani, definendo linee guida che regolano le trattative, l’ambiente e la gestione delle risorse naturali. Questa convenzione è stata delineata durante un lungo processo di negoziazione attraverso una serie di Conferenze delle Nazioni Unite, iniziate nel 1973 ed è stata aperta alla firma nella città di Montego bay, in Giamaica, il 10 dicembre 1982. L’Italia ha ratificato la convenzione a mezzo di legge del 2 dicembre 1994, n. 689.
7 La giurisdizione territoriale dà diritto ad uno Stato di espletare norme che regolano l’ordine pubblico e le attività di carattere economico e commerciale.
8 “L’articolo 97 della Convenzione stabilisce che il fermo o il sequestro della nave non possono essere disposti da nessuna autorità che non sia lo Stato di bandiera che ne ha la giurisdizione esclusiva. Questo vuol dire che la decisone del Tribunale di Kollam che ha disposto il carcere per i due ufficiali Massimiliano Latorre e Salvatore Girone è illegittima. Ma c’è di più a confermare la piena competenza italiana. I due militari che operavano a bordo della Enrica Lexie hanno agito in base alla legge n. 130 del 2 agosto 2011, adottata dal Parlamento per dare esecuzione alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sono state le Nazioni Unite a chiedere agli Stati l’adozione di misure più efficaci per combattere la pirateria che prolifera nelle acque al largo dell’India e della Somalia. I militari, inviati a bordo di una nave privata per garantire la sicurezza della navigazione, agiscono in base al diritto internazionale, nel pieno rispetto del codice penale militare di pace, ricevendo ordini non dal comandante della nave privata, ma dai vertici militari. E’ il comandante del nucleo ad avere la piena responsabilità delle operazioni condotte per contrastare la pirateria. Gli atti dei due militari, quindi, sono imputabili allo Stato che, al massimo, ne potrebbe essere chiamato a rispondere con un risarcimento dei danni se si dimostrasse un’illiceità del comportamento. Così non sembra. L’azione dei militari italiani, che hanno un’immunità funzionale in quanto organi dello Stato con precisi compiti istituzionali, è avvenuta nel pieno rispetto delle regole internazionali. Non si è trattato di un’azione sproporzionata tant’è che i militari italiani sono intervenuti, per garantire la protezione della nave dal rischio di un attacco di pirati, prima lanciando avvertimenti e solo dopo aprendo il fuoco dalla plancia della petroliera. In ogni caso, qualora si dimostrasse l’esistenza di un errore, la stessa Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare prevede che, in caso di interventi motivati da un sospetto di pirateria che poi risulta infondato, lo Stato sia responsabile unicamente per i danni e le perdite provocate”. M. Castellaneta, Nel mare internazionale la giurisdizione allo Stato della bandiera, 08 marzo 2012 si veda sul sito: http://www.marinacastellaneta.it/category/immunita-organi-dello-stato.
9 Extraordinary chambers in the courts of Cambodia before the pre-trial chamber, Criminal Case File No. 002/14-08-2006; Extraordinary chambers in the courts of Cambodia: provisional detention order against kaing guek eav "Duch, in International legal Materials, Vol. 46, No. 5, 2007, pp. 913-918, in ASIL; "Summary of the Speech of Mr. Thor Saron, Cambodian Judge", in National Workshop Report on Awareness Raising in Arms Law, July 16-18, 2006, pages 15-16 (Working Group on Weapons Reduction, 2006), pp. 1-6,8, 15-17; Robert Petit and Anees Ahmed, A Review of the Jurisprudence of the Khmer Rouge Tribunal, in NJIHR, Volume 8, Issue 2 (Spring 2010).
10 Prosecutor v. André Rwamakuba, Case No. ICTR-98-44C-T; A.M. Maugeri, La responsabilità da comando nello Statuto della Corte Penale Internazionale, Milano, 2007; Klip, André and Sluiter, Göran. Commentary on the trial judgment in the case of Prosecutor v. Rwamakuba Annotated leading cases of international criminal tribunals : Vol. 25: the International Criminal Tribunal for Rwanda, 2006-2007, p.509-522;
11 Sarin, Observation on the mechanisms of settlement of disputes under United Nations Convention on the Law of the Sea, in RC, 1985, p.107 ss.; A. Cannone, Il Tribunale internazionale del diritto del mare, Bari, 1991, p. 41 ss.
12 L. Mazzarelli, La Giurisdizione civile e penale dello Stato costiero sulle navi straniere, Bari, 1993, p.15 ss.
13 Articolo 35 - 1. La Corte è aperta agli Stati aderenti al presente Statuto. 2. Le condizioni alle quali la Corte è aperta agli altri Stati sono determinate, con riserva delle speciali disposizioni contenute nei trattati in vigore, dal Consiglio di Sicurezza, ma in nessun caso tali condizioni possono porre le parti in posizione di ineguaglianza davanti alla Corte.
Articolo 36 - 1. La competenza della Corte si estende a tutte le controversie che le parti sottopongano ad essa ed a tutti i casi espressamente previsti dallo Statuto delle Nazioni Unite o dai trattati e dalle convenzioni in vigore. 2. Gli Stati aderenti al presente Statuto possono in ogni momento dichiarare di riconoscere come obbligatoria ipso facto e senza speciale convenzione, nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti il medesimo obbligo, la giurisdizione della Corte su tutte le controversie giuridiche concernenti: a. l'interpretazione di un trattato; b. qualsiasi questione di diritto internazionale; c. l'esistenza di qualsiasi fatto che, se accertato, costituirebbe la violazione di un obbligo internazionale; d. la natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un obbligo internazionale. 3. Le dichiarazioni di cui sopra possono essere fatte incondizionatamente o sotto condizione di reciprocità da parte di più Stati o di determinati Stati o per un periodo determinato. 4. Tali dichiarazioni sono depositate presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne trasmette copia agli Stati aderenti al presente Statuto ed al Cancelliere della Corte. 5. Le dichiarazioni fatte in applicazione dello articolo 36 dello Statuto della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, e che siano tuttora in vigore, sono considerate, nei rapporti tra Stati aderenti al presente Statuto, come accettazioni della giurisdizione obbligatoria della Corte Internazionale di Giustizia per il periodo per il quale debbano ancora aver vigore, e in conformità alle loro clausole. 6. In caso di contestazione sulla competenza della Corte, la Corte decide.
14 P. Simone, Le riunioni degli Stati parti quale strumento di attuazione della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, in Com. Int., 2000, p.219 ss.
15 “Il 16 dicembre 2008 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione 1851 (2008) concernente la situazione in Somalia, autorizzando gli Stati e le organizzazioni regionali che cooperano nella lotta alla pirateria e alle rapine a mano armata in mare al largo delle coste somale i cui nomi siano stati precedentemente comunicati dal governo federale di transizione somalo (GFT) al segretario generale delle Nazioni Unite a prendere tutte le misure necessarie e appropriate in Somalia al fine di reprimere gli atti di pirateria e le rapine a mano armata in mare, purché tali misure siano prese nel rispetto delle norme applicabili del diritto internazionale umanitario e dei diritti dell’uomo” in Decisione 2012/174/PESC del Consiglio, del 23 marzo 2012 , che modifica l’azione comune 2008/851/PESC relativa all’operazione militare dell’Unione europea volta a contribuire alla dissuasione, alla prevenzione e alla repressione degli atti di pirateria e delle rapine a mano armata al largo della Somalia; Resolution 1851 (2008) Adopted by the Security Council at its 6046th meeting, on 16 December 2008; Natalino Ronzitti, La lotta alla pirateria al largo delle coste della Somalia e nell’Oceano Indiano, in Istituto Affari Internazionali (IAI), n. 15, 10 marzo 2008; C. Telesca, Recenti misure internazionali di contrasto alla pirateria, Vol. VII Anno 2009, in Dipartimento di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente; J. P. Pierini, l’Aspetto giuridico nazionale (diritto marittimo e penale), Pirati di ieri e di oggi, in supplemento alla Rivista Marittima, 12/2009, p. 70 ss.; Nazioni Unite : Consiglio di sicurezza - Risoluzione 1851 (2008), adottata il 16 dicembre 2008, con cui si autorizzano gli Stati e le organizzazioni regionali a prendere in Somalia tutte le misure necessarie a reprimere gli atti di pirateria commessi al largo delle coste della Somalia, in RDI, 1/2009, pp.270-274; F. Fedi, Come processare i pirati somali, in http://www.affarinternazionali.it/, aprile 2012; U. La Torre, Sicurezza della nave e difesa dalla pirateria, in Rivisita del Diritto di Navigazione, vol. XL, n.2, 2011; F. Caffio e N. Ronzitti, La pirateria: che fare per sconfiggerla?, in Osservatorio di politica internazionale, n.44, aprile 2012, p.1 ss.
16 R. Cazzola Hofmann, I nuovi pirati. La pirateria del terzo millennio in Africa, Asia e America Latina, Milano, 2009; M.C. Noto, La repressione della pirateria in Somalia: le misure coercitive del Consiglio di Sicurezza e la competenza giurisdizionale degli Stati, in Comun. intern., 2009, 439 ss. a 453 s.; T. Treves, Piracy, Law of the Sea and Use of Force: Developments off the Coast of Somalia, in Eur. J. Intern. Law, 2009, 399-414.; M. C. Ciciriello, F. Mucci, La moderna pirateria al largo delle coste della Somalia: un banco di prova per vecchi e nuovi strumenti internazionali di prevenzione e repressione, in Rivista di Diritto della Navigazione, vol. XXXIX, n.1, 2010, p.87 ss.
17 F. Caffio, Nuovi strumenti di protezione contro la pirateria a favore delle navi private, in Rivista Marittima, ottobre 2011; Legge 2 agosto 2011, n. 130. Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 luglio 2011, n. 107, recante proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia e disposizioni per l'attuazione delle Risoluzioni 1970 (2011) e 1973 (2011) adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Misure urgenti antipirateria. Gazzetta Ufficiale n. 181 del 05 agosto 2011.
18 il 15 febbraio i marò sulla Enrica Lexie hanno comunicato alle autorità militari italiane di aver registrato, alle ore 12,28 italiane, un attacco da parte di sospetti pirati e di aver messo in atto graduali azioni dissuasive, inclusi colpi di avvertimento, quali il naviglio sospetto si era allontanato. Successivamente, alle ore 15 italiane, le autorità indiane hanno chiesto al comandante della Enrica Lexie di dirigersi verso il porto di Kochi, precisando che avevano arrestato alcuni sospetti pirati e necessitavano di una collaborazione per identificare gli autori dell’attacco. Alle ore 15,30 il Comando operativo interforze della Difesa ha ricevuto dal capo team del nucleo militare di protezione – i marò a bordo della Lexie – la comunicazione che la compagnia armatrice aveva deciso di accogliere la richiesta indiana, autorizzando la deviazione di rotta. Quindi, alle ore 17,48 di quel giorno, l’Enrica Lexie e` arrivata alla fonda nelle acque territoriali indiane e alle ore 18 il capo team, maresciallo Latorre, ha riferito di aver appreso dalla compagnia armatrice che era circolata la notizia della morte dei due pescatori. E `stato più volte sollevato l’interrogativo sul perché la nave sia entrata nelle acque indiane e sul perché i militari siano scesi terra. L’ho già detto pubblicamente da diverso tempo, in diverse occasioni: siamo tutti d’accordo che la nave non avrebbe dovuta entrare in acque indiane e i militari, di conseguenza, non avrebbero dovuto essere obbligati a scendere a terra. Nel primo caso – l’ingresso della nave in acque indiane – si e` trattato del risultato di un sotterfugio della polizia locale, in particolare del Centro di coordinamento per la sicurezza in mare di Bombay, che aveva richiesto al comandante della Lexie di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati. Sulla base di questa richiesta, il comandante della Lexie, acquisita l’autorizzazione dell’armatore, decideva di dirigere in porto e il comandante della squadra navale e il Centro operativo interforze della Difesa non avanzavano obiezioni, in ragione di una ravvisata esigenza di cooperazione antipirateria con le autorità indiane, non avendo essi nessun motivo di sospetto. Nel secondo caso, quello della consegna dei marò, essa e` avvenuta per effetto di evidenti, chiare, insistenti azioni coercitive indiane ( … ) - Informativa del Ministro degli Esteri sull’arresto di due militari italiani in India, in 690° seduta XVI legislatura, Senato della Repubblica, 13 marzo 2012, Roma, p.7 ss.
19 Ogni Stato apre un’inchiesta che sarà condotta da o davanti a una o più persone debitamente qualificate, su ogni incidente in mare o di navigazione nell’alto mare, che abbia coinvolto una nave battente la sua bandiera e abbia causato la morte o lesioni gravi a cittadini di un altro Stato, oppure abbia provocato danni seri a navi o installazioni di un altro Stato o all’ambiente marino. Lo Stato di bandiera e l’altro Stato cooperano allo svolgimento di inchieste aperte da quest’ultimo su uno qualunque di tali incidenti (art.94 paragrafo 7).
20 A. Cassese, International Law, II ed., Oxford, 2004, pp.110-120; N. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Torino, 2004, p. 119 ss.
21 P. De Sena, Diritto internazionale e immunità funzionale degli organi Statali, Milano, 1996, p. 7 ss.; A. Atteritano, Immunity of States and their organs: the contribution of Italian jurisprudence over the past ten years, in Italian Yearbook of International Law, vol. XX, 2010, p.33 ss.; M. Frulli, Sull’immunità dalla giurisdizione straniera degli organi statali sospettati di crimini internazionali, in Immunità costituzionale e crimini internazionali, Aldo Bardusco, Marta Cartabia, Micaela Frulli e Giulio Enea Vigevani ( a cura di), Atti del convegno, Milano, 2008, p.3 ss.
22 M. Miele, L’immunità giurisdizionale degli organi stranieri, Milano, 1961, p. 24 ss.; L. Migliorino, Giurisdizione dello Stato territoriale rispetto ad azioni non autorizzate di agenti di Stati stranieri, in RDI, 1988, p.784 ss.; B. Conforti, In tema di immunità funzionale degli organi statali stranieri, in RDI, 2010, p.5 ss.
23 D. Urquhart, Case of Mr Mc Leod, London, 1841, p.7 ss.
24 J. B. Moore, A Digest of International Law, vol. 2, p.409 ss., Washington, 1906.; R. Y. Jennings, The Caroline and Mc Leod Cases, in AJIL, 1938, p.82 ss.; Quadri, Diritto internazionale pubblico, Napoli, 1968, p.271 ss.; L. Zanardi, La legittima difesa nel diritto internazionale, Milano, 1972, p.43 ss.; G. Carella, La Responsabilità dello Stato per Crimini Internazionali, Napoli, 1985, pp.169- 170, si veda anche la nota 26 del capitolo I, p.47; P. De Sena, op. cit., p.43 ss.;
25 J. Charpentier, L’Affaire du “ Rainbow Warrior”, in A.F.D.I, 1985, p.210 ss.; A. Cassese, Diritto internazionale I, Bologna, 2003, p. 124 ss.; S. Forlati, Diritto dei trattati e responsabilità internazionale, Milano, 2005, p. 13 ss.
26 Due to France’s non-recognition of the compulsory jurisdiction of the Court, there were jurisdictional obstacles to bringing the case before the ICJ. The parties approached the Secretary-General to ask him to act as mediator in the dispute between them. The Secretary-General agreed to do so and the two States agreed to refer all the problems between them arising from the Rainbow Warrior affair to the Secretary-General. They also agreed to abide by his ruling. The Secretary-General was given a mandate to find a solution that would respect and reconcile the conflicting positions of the parties, and would, at the same time, be both equitable and principled. Literally within days of the ruling, the parties exchanged letters amounting to an agreement in settlement of all issues arising from the Rainbow Warrior affair. In essence, the Prime Minister of France agreed to convey a formal and unqualified apology to the Prime Minister of New Zealand for the attack on the Rainbow Warrior by French service agents which was contrary to international law. He agreed to pay a sum of US$7 million to the Government of New Zealand as compensation for the damage suffered. On the other hand, New Zealand agreed to transfer the two agents responsible for the sinking of the Rainbow Warrior to a French military facility for a period of 3 years. Ban Ki Moon, Alternatives to litigation in a civil society, in ICDR, 2011, p. 11 ss.; Affaire concernant les problèmes nés entre la France et la Nouvelle-Zélande de l'incident du Rainbow Warrior, Règlement du 6 juillet 1986 opéré par le Secrétaire général des Nations Unies, in Recueil des sentences arbitrales, Vol. XIX, 1986, United Nations, New York, p.199 ss.
27 ( … ) gli agenti furono condannati a dieci anni di reclusione dai giudici neozelandesi, dove il governo della Nuova Zelanda mantenne fermo il principio della giurisdizione penale sugli autori dal punto di vista interno, mentre la Francia doveva solo sul piano internazionale provvedere ai danni morali e materiali. ( … ) la Francia, contrario alla punizione dei suoi agenti, in contrasto con il diritto francese e il diritto internazionale, accettò di sottoporsi all’arbitrato del Segretario Generale delle Nazioni Unite ( …), in B. Conforti, op. cit., p. 11 ss.; A. Cassese, International Crime Law,Oxford, 2008, p. 309.
28 G. Paccione, Violazione del diritto internazionale inerente la vicenda dell’intervento militare israeliano sui battelli umanitari in alto mare, in Diritto.it, sez. diritto internazionale, 2010.
29 Report of the international fact-finding mission to investigate violations of international law, including international humanitarian and human rights law, resulting from the Israeli attacks on the flotilla of ships carrying humanitarian assistance, in A/HRC/15/21, 27 settembre 2010.
30 Common Dreams, Turkey Indicts Israel's IDF Officials for Gaza Flotilla Killings, si veda in www.com-mondreams.org/headline/2012/05/28.
31 A. Annoni, L’abbordaggio della Gaza Freedom Flotilla alla luce del diritto internazionale, in RDI, vol.4, 2011, p.1203 ss.
32 Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha emanato un congruo numero di risoluzioni inerente la pirateria somala da quando è iniziata la crisi del Corno d’Africa, dalla prima del 2 giugno 2008, la 1816, sino all’ultima del 22 novembre 2011, la 2020. Quindici risoluzioni, compresa la 2018 (2011) dedicata alla pirateria del Golfo di Guinea, che indicano linee di policy e settori di attività internazionale volti a debellare il fenomeno criminale. A. Tancredi, Di pirati e Stati falliti: il Consiglio di Sicurezza autorizza il ricorso alla forza nelle acque territoriali della Somalia, in RDI, 4/2008, p.937 ss.; A. Caligiuri, Le misure di contrasto della pirateria nel mare territoriale somalo: osservazioni a margine della risoluzione 1816 (2008) del Consiglio di Sicurezza, in Il Diritto marittimo, 2008, p. 1506 ss.; F. Munari, La nuova pirateria e il diritto internazionale, spunti di una riflessione; in RDI, 2/2009, p.325 ss.
33 Decreto legge n. 107 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge 2 agosto 2011, n. 130. 34 G.Paccione, Il rapporto tra lo Stato e le società militari e di sicurezza private nel diritto internazionale, in Diritto.it, sez. Diritto internazionale, 2011.
35 Articolo 1135 - Il comandante o l'ufficiale di nave nazionale o straniera, che commette atti di depredazione in danno di una nave nazionale o straniera o del carico, ovvero a scopo di depredazione commette violenza in danno di persona imbarcata su una nave nazionale o straniera, è punito con la reclusione da dieci a venti anni. Per gli altri componenti dell'equipaggio la pena è diminuita in misura non eccedente un terzo; per gli estranei la pena è ridotta fino alla metà.
Articolo 1136 - Il comandante o l'ufficiale di nave nazionale o straniera, fornita abusivamente di armi, che naviga senza essere munita delle carte di bordo, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
36 A. Lefebvre, G. Pescatore, L. Tullio, Manuale di diritto della navigazione, Milano, 2011, p.751 ss.
37 Andrea de Guttry, Fighting Piracy and Armed Robbery in the XXI Century: Some Legal Issues Surrounding the EU Military Operation Atalanta, in Studi sull’integrazione europea, Bari, n.2 – 2010, p.325 ss.
38 C. Kinsey, International Law and the Control of Mercenaries and Private Military Companies, in Cultures & Conflits, 2012, p.2 ss.
39 Nell’alto mare o in qualunque altro luogo fuori della giurisdizione di qualunque Stato, ogni Stato può sequestrare una nave o aeromobile pirata o una nave o aeromobile catturati con atti di pirateria e tenuti sotto il controllo dei pirati; può arrestare le persone a bordo e requisirne i beni. Gli organi giurisdizionali dello Stato che ha disposto il sequestro hanno il potere di decidere la pena da infliggere nonché le misure da adottare nei confronti delle navi, aeromobili o beni, nel rispetto dei diritti dei terzi in buona fede.
40 International Convention against the Recruitment, Use, Financing and Training of Mercenaries, A/RES/44/34, 72nd plenary meeting, 4 December 1989; C. Kinsey, International Law and the Control of Mercenaries and Private Military Companies, Cultures & Conflits, 26 juin 2008, vedere sul sito: http://conflits.revues.org/index11502.html.; Quoted in Zarate J.C., (1998) The Emergence of a New Dog of War: Private International Security Companies, International Law, and the New World Order, in Stanford Journal of International Law, No. 34, p125.

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